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Il regionalismo americano: ALCA e ALBA

Creato il 19 marzo 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Il regionalismo americano: ALCA e ALBA

Il regionalismo in nessuna altra parte del mondo è un processo dinamico come nel continente americano. Il susseguirsi di proposte di cooperazione politica, sociale ed economica testimonia chiaramente l’instabilità che caratterizza le relazioni internazionali dell’area, segnata sin dai primi anni ’90 dal netto dualismo tra i progetti del governo statunitense e quelli dei governi progressisti del sub-continente latino-americano. L’approccio latinoamericano è però, a differenza di quello statunitense, caratterizzato da forme di integrazione sub-regionale e da una marcata tendenza al metodo intergovernativo, preferito ad un approccio volto alla creazione e al rafforzamento di istituzioni sovranazionali. Ad esempi di meccanismi con decenni di storia alle spalle, quali il MERCOSUR, la Comunità Andina delle Nazioni (CAN) e il Sistema dell’Integrazione Centroamericana (SICA), si affiancano proposte nuove, come l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), e fortemente politicizzate, come l’Alternativa o Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA). Contestualmente però esistono Trattati di Libero Commercio (TLC) che gli Stati Uniti hanno stretto, attraverso accordi bilaterali, con vari Paesi della regione.

In questo contesto s’inserisce l’ “Impresa per l’Iniziativa delle Americhe” (EAI) promossa da George Bush senior (1989-1993), ripresa da Bill Clinton (1993-2001) nel 1994 ed alla base del successivo progetto-ALCA, istituzionalmente ispirato all’Accordo Nordamericano per il Libero Scambio (NAFTA), sebbene volto a coordinare tutte le economie del continente, Cuba esclusa. Eccezion fatta per Argentina, Cile, Repubblica Dominicana, Brasile, Paraguay e Uruguay, i 34 Paesi del continente americano parteciparono in blocchi distinti al “Vertice delle Americhe” di Miami (USA) del 1994, istitutivo proprio dell’ALCA. Gli obiettivi del progetto che mirava all’integrazione economica dell’intero continente, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, si riassumono nell’integrazione dei mercati dei capitali, nell’eliminazione delle barriere commerciali, doganali e non, dei sussidi a favore degli esportatori agricoli e delle barriere agli investimenti stranieri, nonché nelle acquisizioni del settore pubblico, il tutto in coerenza con i dettami dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Nelle intenzioni degli Stati Uniti, il progetto si sarebbe compiuto al più tardi entro il dicembre del 2005, come stabilito in occasione del VI Meeting Ministeriale, tenutosi a Buenos Aires (Argentina) nell’aprile del 2001.

Le ragioni dell’adesione e, in alcuni casi, della sponsorizzazione dell’ALCA da parte dei Paesi latino-americani e caraibici (LAC) sono da ricercarsi innanzitutto nei confusi cambi di rotta delle politiche economiche nazionali e delle strategie di sviluppo portate avanti da questi ultimi, causate dal fallimento del modello adottato durante gli anni ’60 e ’70, dall’esponenziale aumento del debito pubblico di fine anni ’80, dalla pressione derivante dall’avanzata della globalizzazione e dalla loro scarsa complementarità. Tale scenario indebolisce quindi la credibilità di un progetto di integrazione specificamente latino-americano e porta all’adozione di politiche ultraliberiste al fine di garantirsi l’accesso a lungo termine al mercato nord-americano e favorire gli investimenti diretti esteri (IDE) in Paesi comunque considerati “piccole economie”. Ha una triplice natura invece la spiegazione del perché gli Stati Uniti abbiano provato a portare avanti un progetto del genere. Già Ronald Reagan (1981-1989) aveva ipotizzato la creazione di un’area di libero scambio di dimensioni emisferiche, ma il contesto latinoamericano influenzava negativamente i rapporti con gli Stati Uniti, spinti in primo luogo da motivazioni di natura commerciale. L’America Latina è per Washington un mercato ben più importante dell’Unione Europea, come dimostra il fatto che le esportazioni fossero triplicate tra il 1990 e il 1996 e nel 1996 fossero aumentate due volte più del commercio statunitense con il resto del mondo.

L’obiettivo era, quindi, quello di liberalizzare ulteriormente le economie del continente, caratterizzate ancora da mercati molto protetti, e di imporre una via “americana” alla globalizzazione, fondata sul dualismo “più mercato, meno Stato”, eliminando così quei residui di gestione statale dell’economia, sopravvissuti ai piani di aggiustamento strutturale degli anni ’80. In secondo luogo, motivazioni di natura politica e di sicurezza nazionale: gli Stati Uniti intendevano, per mezzo dell’ALCA, far fronte da una parte al processo di integrazione europeo che in quegli anni andava consolidandosi con la firma del “Trattato di Maastricht” (1992) e, dall’altra, alla tendenza ad un mondo sempre più multipolare, che dal punto di vista commerciale si sarebbe materializzata nell’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (1995). Inoltre, dalla fine della Guerra Fredda, nel 1991, tenere sotto controllo il traffico di droga, il riciclaggio di denaro sporco, le migrazioni illegali e il terrorismo, più in generale la sicurezza del continente, di conseguenza voleva dire salvaguardare gli interessi statunitensi. In ultima istanza, così facendo si sarebbe configurata una presenza più capillare sul territorio. È, quindi, anche in nome di un buon governo regionale, difeso dalle istituzioni finanziarie internazionali, che Washington propone di abolire le barriere commerciali.

L’operazione-ALCA avrebbe generato nel continente americano un’intensificazione della competizione e l’eliminazione dei dazi sui prodotti e i servizi tra i Paesi membri. L’incremento della competitività sarebbe stato favorevole proprio ai settori produttivi nazionali, eliminando quelle strutture inefficienti che limitano le enormi potenzialità dell’economia americana e applicando esclusivamente quelle tecnologie avanzate capaci di migliorare l’efficienza produttiva. I Paesi sarebbero stati spinti a specializzarsi nell’offerta di beni e servizi ad alto valore aggiunto, sui quali realmente godevano di vantaggi competitivi. Infine, la maggiore interconnessione tra i Paesi avrebbe permesso un aumento delle esportazioni e degli investimenti diretti esteri, frutto di un mercato maggiormente integrato, esteso ed ospitale, nonché del fatto che far parte di un blocco commerciale guidato dagli USA avrebbe permesso di colmare quel gap di rischiosità finanziaria che si riconosce ai Paesi latinoamericani. Sia i produttori che i consumatori avrebbero visto crescere la varietà di materie prime e prodotti finiti a loro disposizione, con una conseguente riduzione dei costi per i primi, e dei prezzi per i secondi, ed un contestuale aumento degli standard qualitativi.

Al contempo però sono presenti anche alcuni aspetti controversi. Il Capitolo 11 dell’Accordo Istitutivo prevedeva che ogni nuovo regolamento introdotto dai governi nazionali avrebbe potuto essere impugnato dalle imprese del continente con interessi nel settore in questione, impedendo agli stessi di fornire gratuitamente o appaltare servizi sociali, di salute, educazione pubblica, puericultura, pensioni e assistenza sociale ad istituzioni pubbliche nazionali. Qualora qualche governo avesse tentato di ritirarsi e mantenere questi servizi sotto il controllo nazionale, tutte le imprese continentali operanti nel settore avrebbero avuto il diritto di richiedere, per via giudiziale, indennizzi per i guadagni persi.

L’ALCA incoraggiava inoltre una politica energetica continentale liberista controllata dalle imprese energetiche transnazionali, fondata sulle esportazioni generatrici di grandi guadagni a breve termine e con un alto costo, sia in termine di aumento dei prezzi che ambientale. Escludeva il ricorso alla clausola della “garanzia di fornitura vitale”, mediante la quale un Paese, per garantirsi l’energia per il futuro, avrebbe potuto escludere dai trattati di libero commercio una definita quantità di petrolio, gas o qualsivoglia altra fonte energetica. Avrebbe dato vita ad un sistema di “agrobusiness”: il mercato latino-americano infatti sarebbe stato invaso dai prodotti provenienti dagli USA, dal Canada e dai grandi produttori argentini, favoriti dai sussidi riconosciuti a questi ultimi dai governi nazionali e quindi in grado di offrire prodotti a prezzi più competitivi. La conseguente diminuzione del consumo di prodotti locali avrebbe portato ad un restringimento del mercato e alla scomparsa di tali produzioni non considerate redditizie, costringendone i produttori a trasformarsi in salariati alle dipendenze delle imprese multinazionali. Gli Stati non avrebbero potuto mantenere, infine, riserve alimentari d’emergenza, essendo quindi costretti a comprare sul libero mercato quanto necessario in caso di siccità o raccolto deficitario. “Autosufficienza alimentare” avrebbe voluto dire poter contare sul denaro sufficiente per acquistare cibo, e non sulla capacità di produrlo.

Anche l’obiettivo dichiarato fondamentale, la più volte sottolineata apertura commerciale, come ampiamente dimostrato dal Messico post-NAFTA, avrebbe generato de-industrializzazione e liquidazione di interi settori dell’agricoltura tradizionale, relegando l’industria latino-americana al ruolo di fornitrice di minerali, prodotti a basso contenuto tecnologico e a scarso valore aggiunto. Accelerando il processo di dollarizzazione dei Paesi latino-americani, infine, avremmo assistito al conseguente crollo dei salari reali, alla perdita del controllo della politica monetaria e all’impossibilità di rinegoziare il debito estero.

Il Vertice di Mar de Plata del 2005 prima, e l’avvento di Obama poi, segnano però l’abbandono del progetto-ALCA anche nella forma light prevista da George W. Bush nel 2008 (il Piano B dell’ALCA) innanzitutto per tre ordini di ragioni. Sul piano economico soprattutto a causa delle asimmetrie economiche proprie delle 34 economie, aggravate dalla questione dei sussidi agli imprenditori agricoli riconosciuti dagli Stati Uniti. Sul piano sociale e politico, invece, l’imponente mobilitazione della società civile e la crescente opposizione interna agli stessi Stati Uniti, nonché l’affermarsi di nuove forze politiche in America Latina hanno convinto Washington a virare su accordi bilaterali con alcuni Paesi della regione: sono stati così siglati Trattati di Libero Commercio con il Cile, con i Paesi del Centroamerica e la Repubblica Dominicana (CAFTA – Central America Free Trade Agreement), con la Colombia, il Perù e l’Ecuador (appartenenti alla CAN). Ma il fattore che più di ogni altro segna la fine di proposte di natura continentale avanzate dagli USA è la nascita di progetti desarrollisti esclusivamente latino-americani, quali la Comunità Sudamericana delle Nazioni (poi divenuta UNASUR) e l’ALBA. A fine 2004, Fidel Castro e Hugo Chavez (1999-2013) affermavano congiuntamente: “[…] rifiutiamo con fermezza il contenuto e i propositi dell’ALCA e condividiamo la convinzione che la cosiddetta integrazione su basi neoliberiste che questa rappresenta, consoliderebbe il panorama descritto e non condurrebbe ad altro che alla disunione ancora maggiore dei Paesi latino-americani, ad una maggiore povertà e disperazione dei settori maggioritari dei nostri Paesi, alla snazionalizzazione delle economie della regione e a una subordinazione assoluta agli ordini stranieri”, dando il via proprio al progetto-ALBA. Apertamente in contrasto con quello statunitense, prende le mosse da un accordo bilaterale, firmato tra il Venezuela e Cuba, consistente nello scambio tra il petrolio venezuelano e il supporto medico cubano, ed estesosi poi con l’adesione del presidente boliviano Evo Morales e di Ecuador, Nicaragua e Honduras successivamente.

Il fallimento del pacchetto di politiche del “Washington Consensus”, imposto ai Paesi in Via di Sviluppo (PVS) dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale come condizione imprescindibile al fine di ottenere prestiti necessari ad avviarne la crescita economica, ha portato a definire il trentennio dai primi anni ’80 Decadas Perdidas; insieme al fallimento dei negoziati in seno al WTO, all’opposizione all’ALCA e alle contemporanee elezioni democratiche di presidenti progressisti in Argentina, Brasile, Uruguay, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Paraguay dipingono il contesto nel quale s’inserisce il progetto-ALBA. L’incontro bilaterale Castro-Chavez del dicembre 2004 ne definisce le basi teoriche. Innanzitutto, il commercio e l’investimento non vengono visti come fini a sé stessi, ma strumenti per raggiungere uno sviluppo giusto e sostenibile: i Trattati di Commercio dei Popoli (TCP), infatti, si basano sui concetti di integrazione commerciale, complementarità, cooperazione, solidarietà, reciprocità, prosperità e rispetto della sovranità nazionale, oltreché sull’effettiva riduzione della povertà mediante il superamento delle sue cause, sul rispetto delle comunità indigene e dell’ambiente. Ciò vuol dire rafforzamento e protezione dei prodotti e dei produttori nazionali, specie del settore agro-alimentare, gestione autonoma della politica agricola ed alimentare ed affidamento esclusivo dei servizi primari ad imprese pubbliche e nazionali. Il tutto in netto contrasto con quanto previsto dai TLC proposti dall’ALCA.

L’integrazione energetica tra i Paesi è invece promossa attraverso la creazione di Petroamérica, un’entità multi-statale alla quale partecipino le imprese energetiche pubbliche dell’America Latina e dei Caraibi, al fine di combattere la volatilità del prezzo delle risorse energetiche e le asimmetrie nelle possibilità d’accesso al mercato, garantendo la sicurezza dell’approvvigionamento a prezzi sostenibili, ossia uno “strumento geopolitico”, un sistema che protegga e rafforzi i Paesi della regione in situazioni di instabilità economica globale. A ciò si affianca il progetto del Gran Gasdotto del Sud (GGS), capace di trasportare gas naturale dal Venezuela all’Argentina. Sul piano economico-finanziario, l’ALBA punta ad emancipare l’America Latina dal Fondo Monetario Internazionale e dalle altre istituzioni internazionali, mediante la stipula di accordi di interscambio di beni e servizi al di fuori del tradizionale sistema bancario e commerciale. A tale scopo il 26 gennaio del 2008, a Caracas, il presidente Hugo Chavez firmò l’atto costitutivo della Banca dell’ALBA (BA), alla quale prendono parte anche il governo boliviano, quello nicaraguense e quello cubano. Gli apporti sono concessi dagli integranti in seguito ad una analisi individuale e in dipendenza delle singole possibilità. È ancora del 2008 la proposta di adozione di una moneta unica, il “sucre”, alla quale hanno già aderito oltre al Venezuela, anche Cuba, Honduras, Bolivia, Nicaragua, Dominica ed Ecuador.

Quindi, considerando i 9 Paesi che oggi la compongono, l’ALBA contempla una popolazione di circa 72 milioni di abitanti ed una superficie di 2,650 milioni di kmq. Le enormi potenzialità economiche: Venezuela, Bolivia ed Ecuador sono grandi produttori di petrolio e, almeno i primi 2, anche di gas, gli importanti passi avanti fatti nello sviluppo di una poderosa industria petrolchimica e idroelettrica fanno pensare che, essendo la problematica energetica sempre più pressante, l’ALBA possa contare su risorse invidiabili. Le produzioni di mais, soia, canna da zucchero, cacao, caffè, coca, manioca, frutta, patate, carote e legumi, le zone altamente adatte all’allevamento in Bolivia e Venezuela, affiancate da un’adeguata riforma agraria, dalla lotta al latifondo, dall’aiuto creditizio necessario, dall’uso di macchinari agricoli di ultima generazione e dall’abilitazione tecnica dei contadini potrebbero portare al raggiungimento della sicurezza e della sovranità alimentare. Esiste anche una ricchezza immensa in minerali, quali ferro, bauxite, stagno, argento, oro, carbone e cobalto; ricchezza che, integrata con lo sviluppo di altiforni e la costruzione di impianti siderurgici, eviterebbe l’importazione di materie prime dall’estero. A tutto ciò si aggiunge lo sviluppo dell’industria farmaceutica cubana e il contributo dei saperi e delle conoscenze di culture originarie millenarie. In ultima istanza bisogna citare l’immensa ricchezza di acqua potabile della regione e il progetto geopolitico di collegare l’Oceano Atlantico con il Pacifico mediante un canale che attraversi il Nicaragua, come previsto dal Presidente nicaraguense Daniel Ortega.

Nonostante ciò anche l’ALBA non sembra decollare definitivamente. L’abbandono del progetto ALCA da parte degli USA, come detto, decretato dal fallimento del Vertice di Mar de Plata e dall’avvento di Obama, non ha di fatto diminuito l’interesse degli Stati Uniti per l’America Latina, le sue ricchezze e le prospettive che questa offre. I diversi accordi bilaterali hanno comunque come obiettivo quello di aprire i mercati latinoamericani e di uniformare le politiche economiche continentali. Sarà pur fallito quindi il progetto-ALCA, ma ciò non ha segnato la fine o quantomeno l’alleggerimento della presenza statunitense nel continente latinoamericano. Oggi più di ieri è però difficoltoso porsi a capo di un subcontinente più consapevole di sé stesso, delle sue risorse e delle sue potenzialità, ma comunque fortemente diviso e dipendente dagli USA.

L’ALBA è, a ben vedere, il frutto esclusivo dell’attivismo politico ed economico nella regione di Hugo Chavez, mentre Fidel Castro dotava le idee chaviste, e quindi l’ALBA, di una sorta di base filosofica. È quindi un progetto caratterizzato da una forte carica ideologica che abbraccia solo chi aderisce strettamente al credo chavista. Propone di creare una Confederazione di Stati Latinoamericani prima di parlare di integrazione economica continentale, rendendo chiaro a tutti che non si tratta principalmente o esclusivamente di un accordo di natura economico-commerciale, ma preminentemente di un accordo di natura politica. Era infatti convinto che l’integrazione economica fosse solo una conseguenza di quella politica, e che solo politicamente integrati si potesse raggiungere un peso tale per poter giocare un ruolo di primo piano nel contesto internazionale. Dietro alla retorica vi è però una pragmatica strategia disegnata per permettere al Venezuela di conquistare la leadership in America Latina ed affrancarsi dagli Stati Uniti. Problemi di natura teorica e pratica sorgono però allorquando si consideri che il Venezuela è membro del MERCOSUR dal luglio del 2012 e la Bolivia è uno dei Paesi fondatori della Comunità Andina. Queste contraddizioni potrebbero minare tanto il presente quanto il futuro del progetto. Infatti, uno dei maggiori problemi dell’ALBA è proprio la compatibilità con gli altri accordi regionali dei quali i Paesi membri sono parte. Le contraddizioni potrebbero addirittura sorgere sul terreno della cooperazione energetica che, a primo acchito, sembra essere il motore del progetto. La costruzione del “Gran Gasdotto del Sud” infatti escluderebbe la Bolivia e la porrebbe in competizione con il Venezuela stesso sui mercati brasiliano ed argentino. Dal punto di vista teorico, poi, l’ALBA dichiara di perseguire uno sviluppo prima di tutto sostenibile, ma poi fonda sul petrolio venezuelano la sua struttura, non opponendosi invece allo sfruttamento delle risorse fossili latinoamericane, ed ha intenzione di dar vita al “Gran Gasdotto del Sud”, in piena foresta amazzonica.

Il regionalismo latinoamericano del XXI secolo è quindi un universo eterogeneo che spesso è più frammentazione che aspirazione ad unità e solidarietà regionale. Le contraddizioni interne, le distanze tra ideologia e pratica politica, il ruolo degli Stati Uniti e del Brasile, le asimmetrie e le discussioni sul modello di sviluppo da adottare ci portano a considerare la possibilità che l’integrazione regionale latinoamericana possa essere solo utopia. Anche se in prospettiva futura, la svolta a sinistra dell’Argentina di Cristina Fernández de Kirchner e il collaborazionismo brasiliano, sfociato appunto nell’adesione del Venezuela al MERCOSUR, nonché la costante presenza di osservatori russi agli incontri dell’ALBA potrebbero essere un chiaro segno della possibilità di fondare la “Patria Grande”, il progetto è fortemente dipendente dal Venezuela, dalle sue risorse e dalla sua generosità, ma soprattutto dalla forte personalità di Chavez. Né Evo Morales, né Raul Castro infatti sembrano avere il peso geopolitico necessario e la convinzione per portare avanti un progetto di integrazione regionale. Tantomeno chiare appaiono le previsioni circa l’evoluzione della situazione venezuelana alla luce della recente scomparsa dello stesso Chavez. Ad oggi, a mio avviso, l’unico progetto seriamente in grado di dar vita a quella “Patria Grande” prospettata da Josè Martì è quindi il MERCOSUR, a maggior ragione dopo l’adesione a pieno titolo del Venezuela, mentre tutti gli altri sembrano solo fatti su misura per gli interessi dell’uno o dell’altro Paese lìder, senza una vera e propria aspirazione integrazionista alla base.


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