La mafia non è una semplice associazione di malfattori, ma è una formazione sociale. Questa è la tesi principale sostenuta da Napoleone Colajanni (senior) nel libro Nel regno della Mafia, scritto nel 1900 e ristampato di recente[1].
L’analisi di Colajanni, noto politico della seconda metà dell’800, siciliano di Enna, garibaldino e deputato repubblicano al Parlamento, colpisce ancora per la sua lucidità e attualità. Essa sviluppa e arricchisce l’analisi proposta alcuni decenni prima da Leopoldo Franchetti (ne Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia nel 1876) e costituisce, con essa, un punto di riferimento imprescindibile per qualsiasi discorso sulla mafia che superi la retorica, a lungo diffusa, della mafia come semplice patologia criminale o sorta di anti-stato.
Colajanni inizia dall’omicidio nel 1893 di Emanuele Notarbartolo, ex direttore del Banco di Sicilia, che si era opposto agli interessi di mafiosi e di alti funzionari dello stato, e prova a ricercare le cause delle numerose reticenze, degli episodi di corruzione e di malfunzionamento delle istituzioni politiche, giudiziarie e amministrative che contraddistinsero le diverse fasi del processo contro i responsabili, i quali infine vennero assolti.
Egli trova che tali fatti siano dovuti a un ambiente sociale ‘guasto’, nel quale uomini e istituzioni si corrompono e si adattano.
Per spiegarne l’origine, Colajanni chiama in causa i fattori legati alle specifiche forme di arretratezza che caratterizzano la Sicilia. Una struttura politico-economico-sociale che rimane imperniata sul latifondo, anche quando l’organizzazione feudale viene abolita, la violenza e la iniquità sia dei governi che si sono succeduti nei secoli che delle classi superiori, l’odio tra la piccolissima borghesia e tra i lavoratori agricoli e urbani alimentato dal regime feudale, l’analfabetismo e la miseria. Malgoverno sistematico e oppressione sociale sono dunque i due fattori chiave che spiegano l’origine dello spirito della mafia, cioè di quell’insieme di sentimenti e comportamenti in cui si combinano un uso spregiudicato del potere, difesa dei propri beni con qualsiasi mezzo, diffidenza per lo stato e il diritto, volontà di farsi giustizia da sé.
Tale spirito non fu intaccato dall’abolizione del feudalesimo del 1812 e 1818, che fu solo legale e senza effetti reali. Infatti i lavoratori, spogliati dell’uso delle proprietà feudali, rimasero oppressi. Le classi dirigenti – sia quelle vecchie assenteiste sia quelle emergenti, cioè i gabellotti (gli affittuari delle terre, la borghesia) – diedero vita a uno speciale e anormale sistema di difesa pubblica e privata dei beni e delle persone e di amministrazione della giustizia fondato sulla violenza (in cui un ruolo centrale svolgevano i cosiddetti campieri o mafiosi).
Tale spirito non fu intaccato neanche nel 1860 dal nuovo stato unitario. Questo non distrusse il latifondo, ma anzi si appoggiò su di esso, cioè sulle classi sociali vecchie e nuove che da esso traevano ricchezza e potere e aspiravano ad acquisirne sempre di più.
Così, il governo unitario si trovò a favorire direttamente lo sviluppo della mafia. Colajanni descrive un processo di osmosi sociale profondo e inquietante. Egli cita con cura le fonti parlamentari per narrare delle responsabilità del governo italiano, delle connivenze con i delinquenti, degli incarichi dati da guardasigilli a noti mafiosi per compiti di ordine pubblico, delle complicità di funzionari pubblici con mafiosi, delle trattative tra uffici dello stato e la mafia.
La mafia nel nuovo stato, dice Colajanni, divenne strumento di governo locale e per questo motivo fu invincibile. In particolare dopo il 1876, con la Sinistra al potere, venne raggiunto il culmine di quella che egli chiama “anarchia di governo”. Le parole di Colajanni sono durissime. Il nuovo governo estese e generalizzò lo spirito della mafia, poiché l’ingiustizia e la sopraffazione vennero a fare capo direttamente al deputato o al candidato governativo. Tali fenomeni assumevano poi proporzioni mostruose nel periodo elettorale, quando rappresentanti delle istituzioni si servivano dei mezzi più disonesti e dei mafiosi per far prevalere i candidati governativi.
Così, tra la popolazione divenne sempre più profonda la convinzione che il diritto non serve e che i politici possono tutto e fanno di tutto per favorire loro stessi e i loro amici.
Come venir fuori da ciò? Il problema è che “per combattere e distruggere il regno della Mafia”, è necessario, dice Colajanni, “che il governo italiano cessi di essere il re della Mafia” (p. 156).
Siamo in grado di dire oggi che tale cesura sia avvenuta, considerando anche la storia italiana più recente? Sembrerebbe di no, data l’impressionante attualità dei fenomeni che egli descrive e le abnormi dimensioni di parassitismo e corruzione che l’Italia di oggi presenta.
Così, il libro di Colajanni costituisce ancora un efficace contributo alla riflessione su come e perché le classi dirigenti nazionali non siano state finora all’altezza del loro normale compito, quello cioè di creare uno stato moderno con una moderna economia nazionale, che, in quanto tale, fosse in grado di escludere dal proprio interno la mafia.
[1] Napoleone Colajanni (1900), Nel regno della Mafia, BUR Rizzoli, 2013
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