Dirò una banalità : credo che esistano gli SCRITTORI, quelli cioè in grado di scrivere e narrare qualsiasi tipo di storia e renderla eterna, ovvero autori come Hugo, Tolstoj, Pirandello, Dickinson, Flaubert, Orwell, Gogol, Manzoni o Simenon e NARRATORI che si trovano tra le mani una storia da raccontare, lo fanno ed esauriscono li la loro capacità. Io potrei raccontare molto bene, coinvolgendo chi mi ascolta, di un mio avvenimento, potrei arricchirlo di sfumature, renderlo avvincente, commovente, ma probabilmente non sarei in grado di descrivere con uguale efficacia la vita quotidiana del mio giornalaio o la storia della mia famiglia. Probabilmente diverrei pedante, scolastico ed annoierei il lettore dopo poche pagine o, addirittura, righe. Temo che, purtroppo, sia ciò che sta accadendo a Nicolai Lilin. Dopo l'esordio fulminante ed il forte impatto emotivo (e mediatico) con “Educazione siberiana” e dopo la “Caduta libera” nell'inferno ceceno, il racconto del difficile rientro nella vita civile, quotidiana de “Il respiro del buio” stenta molto ed appare spesso in affanno. Il libro consta fondamentalmente di due parti: il reduce dopo la guerra, con la fatica, anzi l'impossibilità di rientrare in una vita “normale” (cosa sia poi la normalità sarebbe tutto da esplorare …), che trova nei commilitoni ed in altri reduci come lui una certa forma di affetto, se non altro di comprensione, cosa invece mancante del tutto da parte della società civile; argomento, questo, sviscerato più e più volte da molti film americani sui reduci del Vietnam. La seconda parte, o meglio un lungo intermezzo, è un intervallo nella selvaggia, dura ma assai familiare Siberia, a casa del nonno del protagonista, dove potrà recuperare serenità e coscienza di sé. Purtroppo sono due parti un po' slegate tra loro, che non decollano decisamente né l'una né l'altra. Si aspetta che succeda qualcosa ed invece le pagine scorrono stanche, senza nerbo, senza la tensione dei due libri precedenti. Sembra di leggere uno scrittore annoiato da una narrazione ripetitiva, quasi come se a Lilin non interessasse più parlare di questi argomenti ma dovesse comunque chiudere il discorso. Penso che se l'autore vorrà continuare a scrivere, dovrà mutare registro, argomenti e punti di vista, altrimenti rischia di rimanere per sempre inchiodato alla sua educazione siberiana, di cui aspetto fremente la versione cinematografica che sta ultimando Gabriele Salvatores con nientepropriodimenochè John Malcovich.
Dirò una banalità : credo che esistano gli SCRITTORI, quelli cioè in grado di scrivere e narrare qualsiasi tipo di storia e renderla eterna, ovvero autori come Hugo, Tolstoj, Pirandello, Dickinson, Flaubert, Orwell, Gogol, Manzoni o Simenon e NARRATORI che si trovano tra le mani una storia da raccontare, lo fanno ed esauriscono li la loro capacità. Io potrei raccontare molto bene, coinvolgendo chi mi ascolta, di un mio avvenimento, potrei arricchirlo di sfumature, renderlo avvincente, commovente, ma probabilmente non sarei in grado di descrivere con uguale efficacia la vita quotidiana del mio giornalaio o la storia della mia famiglia. Probabilmente diverrei pedante, scolastico ed annoierei il lettore dopo poche pagine o, addirittura, righe. Temo che, purtroppo, sia ciò che sta accadendo a Nicolai Lilin. Dopo l'esordio fulminante ed il forte impatto emotivo (e mediatico) con “Educazione siberiana” e dopo la “Caduta libera” nell'inferno ceceno, il racconto del difficile rientro nella vita civile, quotidiana de “Il respiro del buio” stenta molto ed appare spesso in affanno. Il libro consta fondamentalmente di due parti: il reduce dopo la guerra, con la fatica, anzi l'impossibilità di rientrare in una vita “normale” (cosa sia poi la normalità sarebbe tutto da esplorare …), che trova nei commilitoni ed in altri reduci come lui una certa forma di affetto, se non altro di comprensione, cosa invece mancante del tutto da parte della società civile; argomento, questo, sviscerato più e più volte da molti film americani sui reduci del Vietnam. La seconda parte, o meglio un lungo intermezzo, è un intervallo nella selvaggia, dura ma assai familiare Siberia, a casa del nonno del protagonista, dove potrà recuperare serenità e coscienza di sé. Purtroppo sono due parti un po' slegate tra loro, che non decollano decisamente né l'una né l'altra. Si aspetta che succeda qualcosa ed invece le pagine scorrono stanche, senza nerbo, senza la tensione dei due libri precedenti. Sembra di leggere uno scrittore annoiato da una narrazione ripetitiva, quasi come se a Lilin non interessasse più parlare di questi argomenti ma dovesse comunque chiudere il discorso. Penso che se l'autore vorrà continuare a scrivere, dovrà mutare registro, argomenti e punti di vista, altrimenti rischia di rimanere per sempre inchiodato alla sua educazione siberiana, di cui aspetto fremente la versione cinematografica che sta ultimando Gabriele Salvatores con nientepropriodimenochè John Malcovich.
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