Recensione
Di stretta e, purtroppo, triste attualità, il romanzo di Avraham Yehoshua si inoltra nel cuore del conflitto arabo-israeliano, tema per uno scrittore ebreo ancor più spinoso, e costruisce una storia sull’idea di responsabilità nei confronti del mondo esterno che ogni singolo individuo si trova a gestire semplicemente esistendo.
Nel caso di Israele, poi, la semplice esistenza diventa una categoria dello spirito (e dello Spirito).
Il nucleo della vicenda è legato alla morte di Julia Regajev, addetta alle pulizie in un panificio di Gerusalemme - dove è emigrata da una Russia vaga e indeterminata -, che cade vittima di un kamikaze arabo. La salma, dopo un lungo percorso di identificazione, viene affidata per il rimpatrio al responsabile delle risorse umane della ditta per cui lavorava, non avendo la donna parenti vicini a Gerusalemme.
Diviso in tre capitoli, il romanzo si snoda in una vicenda che parte con l’assunzione di responsabilità morale per ciò che accade nel mondo intorno al protagonista, anche se questo non ha alcun coinvolgimento diretto con il personaggio. Quindi si trasforma in una missione personale, quasi in una sfida, che lo porta a indagare nell’esistenza di Julia, una sconosciuta destinata a rimanere tale, distante nella morte violenta, un cadavere nell’obitorio di Monte Scopus, anche se il responsabile scopre man mano alcuni aspetti della sua vita privata. Infine la missione genera un viaggio, l’ultimo per le spoglie della cittadina russa morta per un conflitto non suo, e diventa il ritorno alla terra d’origine in una patria lontana, in una famiglia altrettanto distante, da una madre quasi irrintracciabile, partita per un pellegrinaggio in un villaggio sperduto nella taiga.
Il responsabile viene spinto a entrare sempre più nella ricerca dal suo capo, il proprietario della ditta di prodotti da forno e di cancelleria, che sembra volerlo usare come strumento per soddisfare i propri sensi di colpa e gli fornisce tutte le risorse per indagare su Julia Regajev e poi per riportarne la salma in patria.
Volutamente del responsabile e del proprietario sono lasciati nel vago i nomi, l’unico nome certo, dopo il buio iniziale, è l’identità della vittima, ridotta però a mero dato burocratico: la fissità dell’esistenza si cristallizza solo nella morte. Anche il resto delle figure del romanzo rimane nel vago, i personaggi sono indicati quasi sempre con i loro ruoli: il giornalista, il proprietario, la madre, il figlio. Allo stesso modo l’autore usa come tempo della narrazione un presente assoluto, quasi al di là del tempo stesso e in generale lo stile crea una sorta di stacco dal racconto, è quasi asettico. Il proprietario della ditta, ad esempio, assume il ruolo di una figura quasi divina, che assegna al suo dipendente un compito, quasi come per mettere alla prova i talenti che gli sono stati dati.
Partendo da una vicenda a lui del tutto estranea, quasi solo una circostanza tangente nella sua vita, come la morte di una ex dipendente, il responsabile, figura emblematica di ogni uomo, è costretto a fare i conti con i propri rapporti umani e familiari, con i propri fantasmi, ad affrontare una discesa agli inferi (nella malattia che lo coglie in una vecchia base dell’esercito sovietico durante la ricerca della madre di Julia), e a iniziare un percorso di consapevolezza.
Vale a dire a raggiungere il primo gradino della responsabilità di essere un uomo.
Giudizio:
+3stelle+Dettagli del libro
- Titolo: Il responsabile delle risorse umane
- Titolo originale: Shlihuto shel ha-memune al mashave enosh
- Autore: Abraham B. Yehoshua
- Traduttore: Alessandra Shormoni
- Editore: Einaudi
- Data di Pubblicazione: 2005
- Collana: Super ET
- ISBN-13: 9788806179083
- Pagine: 260
- Formato - Prezzo: brossura - Euro 12,00