di Beniamino Franceschini
da FANPAGE, 26 luglio 2012
Citando implicitamente il rischio del boicottaggio, il CIO ritiene inopportuno dedicare un minuto di silenzio agli israeliani uccisi a Monaco nel 1972: la linea realista, però, avvalla i pregiudizi e contraddice i valori dei Giochi.
Il no al minuto di silenzio – Niente da fare, ormai è ufficiale: il Comitato olimpico internazionale ha respinto la richiesta di tenere un minuto di silenzio durante la cerimonia d’apertura in ricordo degli atleti israeliani uccisi dai terroristi di Settembre Nero. Cominciamo con un breve richiamo ai fatti, poiché il tempo necessario a scriverlo mi sarà fondamentale per evitare di cedere al fuoco emotivo, recuperando un minimo di razionalità – il vecchio adagio che suggerisce di contare fino a cento prima di reagire. Il 5 settembre 1972, durante le Olimpiadi di Monaco, un commando palestinese irruppe nel villaggio israeliano, uccidendo due atleti. Dopo ore convulse e di terrore, tra tensioni diplomatiche, inefficienza delle forze di sicurezza tedesche ed errori ripetuti, quando da poco era ormai il 6 settembre, la conclusione della vicenda costò le vite di altri nove israeliani (David Berger, Zeev Friedman, Yossef Gutfreund, Eliezer Halfin, Yossef Romano, Amitzur Shapira, Kehat Shorr, Mark Slavin, André Spitzer, Yakov Springer, Moshe Weinberg), di un poliziotto (Anton Fliegerbauer) e di cinque fedayyin (Luttif Afif, Yusuf Nazzal, Afif Ahmad Hamid, Khalid Jawad, Ahmad Shiq Taha). I Giochi furono sospesi solo per un giorno.
La vittoria dei pregiudizi – Ankie Spitzer, vedova di André, ha rivelato che il presidente del CIO, Jacques Rogge, le avrebbe giustificato la propria decisione con la necessità di evitare le reazioni, ossia il boicottaggio, da parte dei Paesi arabi e musulmani. Credo che questa sia una delle frasi alla quale possa interessarsi un numero esponenziale di esegeti, poiché è un ammirevole esempio di incapacità semantica, diplomatica e politica. Innanzitutto, la sensazione – può essere sbagliata, ma non trovo altre soluzioni – è che il CIO voglia accomunare in un’unica categoria Stati arabi, musulmani e islamici. Ora, se il nostro mondo fosse un sistema operativo, qui si aprirebbero due sottocartelle: da un lato la disarmante, ma diffusa, confusione geografica, culturale e geopolitica, per la quale ci sarebbe biunivocità tra arabi e musulmani; dall’altro la pregiudiziale supposizione che, comunque, essi sarebbero stati contrari al ricordo di vittime che, ancor prima che israeliani, erano uomini di sport. Invece, le delegazioni iraniana e libica si sono dichiarate favorevoli alla commemorazione. Tutto ciò, prescindendo dal fatto che la naturale prosecuzione del ragionamento è l’eguaglianza diffusa tra arabi/musulmani e terrorismo. Eppure (attenzione, nota polemica): non c’era stata la “Primavera”? Certo, esistono legittimi dubbi sulla reazione che alcuni Stati avrebbero potuto avere in quanto aprioristicamente schierati contro Israele: la maggior parte dei Paesi arabi o musulmani, infatti, non riconosce lo Stato ebraico, ma nemmeno Cuba e Venezuela hanno rapporti ufficiali con Tel Aviv. La linea del CIO è inopportuna, poiché conferma la supremazia dell’aspetto politico su quello sportivo, in barba ai valori agonistici. Si sa che lo sport è prosecuzione della politica estera con altri mezzi, ma il CIO ha vocazione universalistica. Tanto varrebbe abrogare i proclami e adottare il principio dello sport come spettacolo, in stile “SuperBowl”, giacché in nome degli affari – the show must go on! – si porrebbe a margine ogni dissidio.
Realismo o rinnegamento? – In questo senso, il presidente Rogge ha mancato sia di onestà intellettuale, sia di coraggio, poiché ha subordinato a logiche di realpolitik la sacralità dello spirito olimpico, ossia, quanto, teoricamente, dovrebbe esserci di più trasparente, impavido e umano al mondo. Nello sport, l’uomo è prima di tutto contro se stesso, costantemente volto al raggiungimento della perfezione psicologia, fisica e comportamentale: l’atleta olimpico ha sulle proprie spalle i millenni della virtù eroica e gli anni del sacrificio proprio e della famiglia. Di fronte alla sofferenza non ci sono appartenenze, poiché un muscolo, teso al massimo, si strappa allo stesso modo per un canadese, un coreano o un ghanese. La diversità è solo nel significato culturale che l’individuo attribuisce al dolore. Gli atti terroristici, lo dice il termine stesso, ancor prima che a ferire il corpo, sono mirati ad affievolire l’animo. Gli israeliani uccisi a Monaco devono essere ricordati durante i Giochi, non fosse altro perché erano uomini di sport e perché il loro sangue ha macchiato indelebilmente le ali e la veste bianche di Nike: «Erano parte della famiglia olimpica, – ha detto Ankie Spitzer, – non turisti».
Parole leggere contro silenzi pesanti – È innegabile che questa scelta ambigua sia connessa all’intangibilità della questione israeliana e, più specificamente, ebraica. Tuttavia, senza addentrarci nell’argomento, il rifiuto di dar seguito alle oltre 100mila firme, tra le quali quella del presidente Obama, raccolte al fine di ottenere un minuto di silenzio per le vittime del 1972, è un duro colpo alla credibilità del CIO quale promotore della cultura olimpica. Inoltre, tutto questo non contribuirà a ridurre il rischio terroristico, sia percepito, sia reale, in una Londra militarizzata al limite dell’orwelliano. Non credo che, nella vicenda, abbia influito direttamente l’antisemitismo, ma temo che la decisione di Jacques Rogge favorisca la discriminazione e il pregiudizio, piuttosto che la concordia e la pace che la torcia olimpica, emblema della sublimazione dell’agone umano, dovrebbe condurre. Ancora una volta prevale la teoria che un minuto di parole sia sempre migliore di un minuto di silenzio, poiché il rumore evita a ognuno di noi l’imbarazzo di dover ascoltare la voce della propria coscienza.
Beniamino Franceschini
- La versione integrale dell’articolo può essere letta qui: Il rifiuto del minuto di silenzio per Monaco ’72: una scelta antiolimpica.
- Un approfondimento sui fatti di Monaco 1972: L’Olimpiade del terrore, di S. Grassi.