Cos’è il rischio? Quanto e cosa siamo disposti a rischiare? Cosa tante volte ci impedisce di rischiare? Un tempo c’erano il calcolo delle probabilità, le statistiche a rassicurarci. Oggi, alle soglie di una «nuova modernità», la scienza sembra incapace di tenere sotto controllo l’incertezza e quindi la paura, che è fisiologica. Ma che si muove in antitesi alla intelligenza.
Ma chiediamoci: davvero i rischi sono aumentati o è cambiata la nostra percezione del rischio? Innegabile è il fatto che spesso energia nucleare e ingegneria genetica hanno esiti difficili da prevedere; e che le crisi economiche, i cambiamenti climatici, il terrorismo, la sovrappopolazione e la scarsità di risorse minacciano di stravolgere la nostra esistenza.
I dubbi sono tanti. Prova a scioglierli Simona Morini, docente di Teoria delle decisioni razionali e dei giochi e di Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Design e Arti dell’Università IUAV di Venezia, che, al rischio ha dedicato un saggio, in uscita il 27 marzo prossimo per le edizioni Bollati Boringhieri. Si intitola, appunto, “Il Rischio – da Pascal a Fukushima”.
In questa intervista toccheremo solo alcuni degli aspetti affrontati nel libro, che vi invito a leggere.
In un’epoca di cambiamenti profondi, che viviamo come pericolosa e che a volte ci fa paura, mi sembra importante essere consapevoli dei tanti elementi – psicologici, sociologici, politici e culturali – che influenzano la nostra percezione e valutazione del rischio. In fondo “rischio” è una parola nuova, che si è cominciata a usare nell’Ottocento. Ecco, mi incuriosiva capire il perché. E ho cercato di spiegarlo.
Siamo davvero passati alla “società del rischio” come diceva Ulrich Beck o è solo cambiata la nostra percezione del rischio? E’ innegabile, comunque, che siamo esposti al rischio globale di essere contaminati da inquinamento atmosferico o di subire attacchi terroristici.
C’è qualcosa, nel rischio di oggi, che lo rende diverso dal rischio legato ai pericoli naturali che gli uomini si sono trovati ad affrontare nel passato. Ed è il fatto di essere agganciato alla tecnologia e al progresso scientifico, cioè all’azione umana.
Rispetto al passato siamo disposti ad accettare di più il rischio e per cosa?
Di fatto, le persone sono più disposte ad accettare psicologicamente un rischio “naturale” (un terremoto o un uragano) che un rischio tecnologico (un disastro nucleare, l’inquinamento, la contaminazione del cibo). Questo spesso accade perché gli effetti positivi della scienza – che ha aumentato notevolmente il nostro livello di vita e la nostra sicurezza rispetto al passato – non ci impressionano più, sono diventati parte della “normalità”, mentre gli inevitabili effetti collaterali negativi ci saltano immediatamente all’occhio. Ma in alcuni casi i rischi tecnologici sono effettivamente diversi dai rischi naturali, al di là delle reazioni emotive e delle ideologie.
In che senso?
L’uso di una nuova tecnologia può diffondersi prima che si possa valutare o anche conoscere il suo impatto naturale e sociale e quindi prima che si possano trovare rimedi per eventuali effetti imprevisti. Se, per esempio, un giorno dovessimo scoprire che l’uso dei cellulari produce un qualche tipo di danno alla salute, sarebbe difficile tornare indietro, dato il numero crescente di funzioni a cui assolvono.
E quindi?
In generale, è difficile modificare pezzi di tecnologia che sono ormai integrati nel tessuto economico, politico e culturale di interi continenti. E questo ha a che vedere con la difficoltà di prevedere e gestire gli effetti dell’innovazione in un mondo complesso, quale è quello globale, che gestiamo attualmente con strumenti politici e culturali inadeguati.
Quanto i media, la politica amplificano gli effetti di potenziali sorgenti di rischio, usandoli come strumenti di controllo e terrore, che alla fine ci inibiscono? Insomma, quanti pericoli fittizi vengono spacciati per reali e che ci bloccano?
Alcuni pericoli colpiscono la nostra immaginazione più di altri. La paura del terrorismo è motivata più dalle immagini impressionanti del crollo delle Torri Gemelle che dal numero effettivo delle vittime. Ma è una paura che è stata utile per giustificare guerre di tutt’altra natura, per esempio, la guerra in Iraq. Non è difficile far leva sulla paura, usare la retorica e la disinformazione per ragioni politiche. Ma proprio la politica è il punto debole nel mondo di oggi. Io credo che i cambiamenti a cui stiamo assistendo comportino dei pericoli, ma anche delle grandi opportunità.
Perché?
Molti rischi, in tutti i tempi, derivano dalla lentezza con cui la politica riesce a gestire il cambiamento. E le opportunità devono essere colte e tradotte rapidamente in nuove forme di economia e sviluppo.
La nostra classe dirigente è attrezzata in questo senso e come definisci il momento che viviamo?
Di sperimentazione sociale e politica, in cui è indispensabile rivedere le regole e le consuete modalità di decisione. La scena di questo cambiamento non può che essere globale. Molto oltre i confini, ormai angusti, degli Stati Nazione.
Il rischio come opportunità di crescita. Siamo tanto lontani, dunque, da quanto affermava John Rawls, che diceva: “Di fronte a ciò che non si conosce, si deve pensare che debba succedere il peggio”?
In generale la regola di decisione rawlsiana, secondo cui bisogna decidere immaginando che succeda il peggio, anche se è molto improbabile, è una regola profondamente irrazionale e paralizzante. Se la applicassimo, non usciremmo di casa, immaginando che potremmo essere investiti da una macchina o colpiti dal classico vaso di fiori! Tuttavia nel caso di rischi che hanno potenziali conseguenze catastrofiche per il genere umano, come, per esempio, il nucleare, che tratto nell’ultimo capitolo del libro, non è sbagliato applicare un qualche “principio di precauzione”. Gestire questi rischi comporta una estrema cautela e una rigorosa applicazione di regole di sicurezza.
Come si fa scegliere la giusta misura?
Gli interessi in gioco, è vero, sono tali da rendere molto difficile un controllo, almeno a livello locale. Il disastro di Fukushima è in parte dovuto alle pressioni dell’industria sulla politica e a una diffusa corruzione che hanno indebolito la sicurezza delle centrali. Si sarebbe potuto evitare il disastro, se si fosse tenuto conto dell’ipotesi – abbastanza improbabile, ma non impossibile in Giappone – di un terremoto seguito da uno tsunami. La centrale ha resistito al terremoto, ma non allo tsunami, che ha messo fuori uso i generatori di corrente di emergenza, provocando una situazione drammatica e incontrollabile. Un eccesso di prudenza, in questo caso, sarebbe stato auspicabile. Se si riesce a tenere la situazione sotto controllo, alla fine il disastro di Fukushima non produrrà più vittime di altri disastri. Se malauguratamente si presentasse il “cigno nero”, non potremmo permetterci di pentirci. Ma solo se diamo un qualche valore alla sopravvivenza del genere umano.
Per il resto?
Lo stesso vale per altri rischi di questo tipo. La loro pericolosità è inscindibile dal funzionamento di meccanismi di controllo adeguati e da regole che contrastino il potere delle lobbies e l’influenza nefasta dell’economia sulla politica. Nell’attesa, “better safe than sorry”, direi.
Un personaggio che ami in modo particolare perché ha saputo rischiare?
Tutto coloro che, come Julian Assange, Edward Snowden, o Daniel Ellsberg prima di loro, hanno fatto del vero giornalismo, rendendo pubblici documenti e informazioni che hanno rivelato il malfunzionamento della politica e delle istituzioni pubbliche e private. L’informazione e la trasparenza dei dati sono il punto di partenza di una nuova cultura politica.
Alla fine cosa significa davvero rischiare?
Creare le condizioni perché, in situazioni poco sicure, le opportunità prevalgano sui pericoli.
Cinzia Ficco