Di Andrea Spotti. Atenco, Messico, 15 giugno 2012. “Né la pioggia, né il vento fermano il movimento!” Hanno risposto in questo modo i partecipanti alla prima Convención Nacional all’inclemenza di Tlàloc (il dio della pioggia azteca). Il quale – implacabile e spietato come solo una divinità puó essere – ha reso molto umida, e a tratti perfino fradicia, la due-giorni assembleare che ha riunito a San Salvador Atenco, nel Estado de Mèxico (regione situata tutt’intorno a Città del Messico), oltre 2500 delegati di 496 organizzazioni provenienti da 29 stati del paese che si battono per impedire che Enrique Peña Nieto, il candidato della restaurazione priista, assuma la presidenza della Repubblica il prossimo primo dicembre.
La scelta del luogo in cui organizzare l’evento non è affatto casuale. In effetti Atenco, oltre ad essere un punto di riferimento per numerose lotte sociali degli ultimi anni, rappresenta un precedente importante per i movimenti in almeno due sensi. Da una parte, perchè fu proprio contro la comunità “atenquese”, che, nel maggio del 2006, l’allora governatore Peña Nieto, in complicità con il governo del presidente conservatore Vicente Fox, scatenò una brutale repressione che costò due morti, torture e violenze sessuali (tuttora impunite), nonchè anni di ingiusta detenzione per decine di militanti. Dall’altra, perchè Atenco rappresenta soprattutto la dignità della resistenza e la possibilità della solidarietà e della vittoria. Vittoria che gli ejidatarios, cioè i piccoli proprietari terrieri ed usufruttuari di terre comunitarie, del Frente de Pueblos en Defiensa de la Tierra (FPDT) ottennero nell’agosto del 2002, quando, dopo mesi di lotta, machete in pugno, riuscirono a impedire la costruzione del nuovo aereoporto di Città del Messico sulle loro terre. Atenco ci parla dunque di quanto potrebbe accadere nel paese nei prossimi anni.
La Convención Nacional, indetta nei giorni successivi alle polemiche elezioni del primo luglio, nel contesto delle mobilitazioni contro la presunta vittoria di Peña Nieto, si è posta due propositi fondamentali: costruire un fronte nazionale di lotta contro il ritorno dell’autoritarismo priista (il PRI governò il Messico come partito egemonico, praticamente unico, per 71 anni fino al 2000) e dare al movimento, nato il maggio scorso con le proteste degli studenti di #YoSoy132 e allargatosi ad altri importanti settori della società messicana, una qualche consistenza organizzativa per poter andare oltre la congiuntura elettorale. Per stabilire, in altri termini, una agenda politica indipendente dalle scadenze istituzionali e coordinata su tutto il paese.
Dal punto di vista della partecipazione, la prima cosa che salta agli occhi è la grande eterogeneità delle realtà presenti: rappresentanti di organizzazioni studentesche, contadine e di genere, associazioni che si battono per la difesa dei diritti umani e indigeni, sindacati e singoli individui; insomma, una vera e propria babele sociale. Oltre a #YoSoy132 e al FPDT, erano presenti, tra gli altri, lo SME (Sindicato Mexicano de Electricistas) e la CNTE (Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación).
Uno dei primi aspetti ad emergere dalla discussione è il grido di dolore dei diversi stati, lontani dalla capitale, che compongono il Messico, stretti nella morsa fra guerra al narco e repressione: “il DF (Distrito Federal=Città del Messico) è un’isola felice”, dice un attivista proveniente dall’estremo nord, da Chihuahua, il quale denuncia la difficoltà, per chi vive fuori dalla grande metropoli, di mobilitarsi liberamente, pena la morte o la desaparición. Anche la narco-guerra del presidente in carica Felipe Calderón e la militarizzazione del territorio vengono messe seriamente in discussione dal movimento che richiede a gran voce il ritorno dei militari nelle caserme, oltreché l’impeachment dell’attuale presidente, considerato il responsabile politico degli oltre 60mila morti provocati dal conflitto in atto.
Al centro del dibattito sono state le proposte per strutturare una campagna nazionale con l’obiettivo di impedire che Enrique Peña Nieto diventi presidente. Da questo punto di vista, bisogna sottolineare la presenza nel movimento di una tendenza alla radicalizzazione della lotta, pur rimanendo nell’ambito della protesta pacifica. Tuttavia, bisogna iniziare a far male all’avversario, sostengono molti interventi, dove per far male si deve intendere bloccare il flusso della circolazione stradale e delle merci, boicottare i profitti delle imprese che hanno sostenuto i brogli elettorali, sanzionare i media mainstream e soprattutto le televisioni per aver sponsorizzato Peña e perfino impedire fisicamente la sua toma de posesión (la cerimonia formale in cui avviene l’investitura del nuovo capo di stato) circondando il parlamento. Alla fine dell’assemblea si è deciso un calendario di lotta, a scadenza quasi settimanale, che mette insieme iniziative centralizzate ed altre locali anche se dovrebbero essere portate avanti in modo coordinato e simultaneo in tutto il paese.
All’interno del ciclo di mobilitazioni spiccano le seguenti: le manifestazioni nazionali del 22 luglio e dell’11 agosto a Città del Messico; la dibattutissima “occupazione” o blocco pacifico di Televisa, principale catena TV messicana, il 27 luglio; due giornate di lotta nazionale in cui sono contemplati blocchi stradali e occupazioni di edifici o piazze simbolicamente importanti il primo e il 6 settembre; uno sciopero studentesco e cittadino, il due ottobre; e il già citato accerchiamento del senato il primo dicembre. Vanno inoltre ricordate, la riunione operativa della Convención, che si terrà nel settentrionale stato di Jalisco il 4 agosto per stabilire dal punto di vista pratico il da farsi, e la seconda Convención Nacional che riunirà nuovamente tutte le organizzazioni a Oaxaca il 22 e il 23 settembre per fare il punto della situazione e decidere quanto rimasto in sospeso nella scorsa riunione.
Durante la plenaria di domenica si è posto l’accento anche sul fatto, fondamentale, che la lotta contro l’imposizione di Peña, non risolve le domande di trasformazione del movimento e che le rivendicazioni che esso esprime vanno ben al di là dell’ambito elettorale e di partito. La stragrande maggioranza dei partecipanti, infatti, si dichiara apartitica e diffida apertamente di tutte le forze politiche, comprese quelle della sinistra istituzionale, considerate spesso altrettanto nocive e repressive delle altre. Di fatto, l’obiettivo principale delle osservazioni critiche dell’assemblea è il sistema economico vigente. Secondo la Convención, infatti, il neoliberismo, che toglie risorse alla comunità per trasformarle in profitto, è la causa dell’esclusione e della povertà presenti in Messico, ed è proprio dal cambiamento della sua logica che bisogna partire per trasformare la società. Rifiuto assoluto, dunque, non solo di Peña, ma delle riforme strutturali di cui si fa rappresentante (lavoro, scuola, energia, pensioni, spesa pubblica) che non farebbero altro che dare un ulteriore giro di vite al già fragile e rachitico welfare state messicano.
La democratizzazione dei mezzi di comunicazione, l’opposizione all’ACTA (l’accordo anti-pirateria che invece la UE ha rifiutato) recentemente firmato dal governo e il diritto alla rete; la riforma dell’educazione per garantire il diritto allo studio a tutti e non solo a una minoranza; la difesa dei beni comuni e la tassazione delle transazioni finanziarie; la difesa della sovranità alimentare e il diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni; la sospensione del pagamento del debito estero e l’abrogazione dei trattati di libero commercio, insieme al riconoscimeto dei diritti civili per il movimento LGBT (lesbico-gay,bisex-transessuale), sono solo alcuni degli elementi di un processo organizzativo che pare proprio voler andare oltre il conflitto postelettorale, per costituirsi come un’opposizione sociale duratura, disposta a dare battaglia contro la privatizzazione delle risorse e la precarizzazione delle vite. Sono tanti e tante, infatti, coloro che fanno riferimento all’articolo 39 della Costituzione che prevede che il popolo ha il diritto, in qualunque momento e qualora lo ritenga necessario, di cambiare la forma di governo e che pensano, quindi, di usufruire di questo diritto alla ribellione.
Da segnalare, inoltre, la partecipazione dei rappresentanti delle comunità indigene di etnia purèpecha di Cheràn Keri, nello stato del Michoacàn, e di quella Huexca, di Morelos. Entrambe, accolte da un’ovazione che simboleggiava un abbraccio collettivo, hanno raccontato la loro lotta per la difesa della natura, della terra e del territorio. Contro la devastazione dei boschi prodotta dai mercanti (spesso mafiosi) della legna e per la costruzione dell’autonomia indigena, i primi; contro l’ennesima grande opera (gasdotto e centrale termoelettrica), i secondi. I comuneros di Cheràn, inoltre, dopo aver cacciato partiti, giudici e polizia locale, si sono appropriati dell’amministrazione pubblica e hanno iniziato a costruire le proprie istituzioni sul modello dell’orizzontalità e della revocabilità dei governanti tipici della tradizione politica indigena, cosa che è già costata la vita di 15 persone.
Per quanto il movimento non abbia ancora sviluppato tutte le sue potenzialità, bisogna riconoscergli il merito di aver ridato voce alla protesta sociale e di aver rimesso in comunicazione le lotte su scala nazionale, cosa che non succedeva dai tempi del risveglio dell’EZLN (Ejercito Zapatista de Liberacion Nacional) con la Otra Campaña del 2005-2006. Inoltre, altro risultato importante, il movimento è riuscito a mettere in difficoltà il sistema dei media e a porre la questione della crisi, quelle della corruzione e della rappresentanza politica e, pertanto, della necessità di una sua radicale trasformazione.