Scienza e fede, dogma e ragione, Diavolo e Dio, questi, in linea di massima, gli opposti che animano la trama de Il Rito, thriller soprannatural-esorcistico firmato da Mikael Håfström (1408, Derailed), nonchè tratto dal libro di Matt Baglio Il Rito. Storia vera di un esorcista di oggi .
Il tema della possessione demoniaca non è certo nuovo, al cinema, basti pensare al successo di pellicole come L’Esorcista, Friedkin (1973); il trittico The Omen, Donner (1976); il dittico Rec, Plaza e Balaguerò; come pure, in tempi più recenti, le svisate legal de L’esorcismo di Emily Rose (Derrickson), e il mockumentary di Cotton. L’ultimo esorcismo (Stamm).
La pellicola di Håfström, sfruttando un plot piuttosto solido, nella sua convenzionalità, è capace di intrattenere a dovere, pur senza eccessivi clamori, grazie soprattutto all’interpretazione di spessore di Anthony Hopkins (Padre Lucas Trevant), che da solo regge buona parte dell’atmosfera del film, risollevandolo dalla mediocrità degli altri personaggi, primo fra i quali l’insipido protagonista, Colin O’Donoghue, troppo preso dai dubbi del suo personale percorso di fede. Grandiosa la fisicità che l’ormai attempato attore inglese, classe 1937, riesce a infondere nelle scene di possessione, che si contrappongono all’ingessatura più totale del suo partner.
Discutibile per altro anche il pretesto dell’ambientazione romana, utilizzata per qualche inquadratura del Vaticano, ma poi sfruttata in modo sostanzialmente marginale e secondario, tanto che il film avrebbe potuto essere ambientato ovunque. Esteticamente pregevoli, comunque, molte scene, graziate da una fotografia (Ben Davis) dai colori terrei e matrici, che contribuisce alla concretizzazione di un’atmosfera plumbea e umbratile, tendente al crepuscolo.
Per il resto il film si limita a sfruttare simbologie, suggestioni ed elementi che vanno dallo pseudo-mistico, alla superstizione, fino al folclore. Abbastanza piatto il grado di analisi psicologica dei personaggi, stereotipici e prevedibili, ma comunque rispondenti ai canoni che lo spettatore si aspetta di ritrovare.Spiace ad esempio che i casi di possessione presentati, la ragazza incinta e il bambino, vengano liquidati e accantonati così sbrigativamente, quasi fossero solo dei pretesti per le agnizioni dello scettico protagonista.
Pur rimanendo all’interno del film di genere, Håfström non calca la mano con gli elementi visivi, limitandosi a effetti di make-up digitali, invero ben realizzati, e poco altro. Una pellicola in un certo senso molto asciutta e concreta, che inevitabilmente ammicca alle pellicole affini, tradizionali del genere, senza innovarne molto i contenuti, ma che riesce comunque a mantenere sufficiente serietà e credibilità, quasi fosse una sorta di adult oriented horror.