Dopo la riunione della BCE di giovedì scorso, nella quale sono state varate significative misure di stimolo monetario e delle quali, nella giornata di domani, potrete leggere la mia opinione in questi pixel, questa settimana sarà la volta della Federal Reserve che, già da dicembre scorso, ha iniziato il cammino (lungo e tortuoso) nella "normalizzazione" dei tassi di interesse.
Vista l'importanza dell'appuntamento, anche alla luce degli ultimi dati dell'economia Usa che appaiono poco coerenti con un ulteriore aumento dei tassi, vale la pena leggere questa analisi, tratta dal sito Bond Vigilantes, nella quale si analizzano gli ultimi dati sull'inflazione Usa, che aggiungono ulteriori elementi di incertezza circa le decisioni che verranno adottate dalla banca centrale Usa
Da Bond Vigilantes
Il 2015 ha visto un collasso dei premio al rischio di inflazione su scala globale, a partire dal mondo sviluppato. I tassi di inflazione annua in USA, Regno Unito ed Europa hanno trascorso gran parte dell’anno a un livello pari o vicino allo zero, con diverse incursioni in territorio negativo. Di conseguenza, i breakeven a breve termine sono scesi a livelli visti l’ultima volta durante la crisi finanziaria (anche se, a dirla tutta, all’epoca erano scesi molto più in basso, ma siamo ancora oggi a livelli di crisi), mentre le valutazioni obbligazionarie in vaste zone del mondo sono state sostenute dalle condizioni prevalenti di bassa inflazione e stagnazione strutturale. Guardando indietro, tre mesi di dati di inflazione fa (ottobre 2015) l’indice IPC statunitense era attestato allo 0,1% anno su anno, il deflatore PCE (ossia il tasso che la Fed cerca di raggiungere al 2%) era allo 0,2% e i timori di deflazione si moltiplicavano in scia al crollo dei prezzi dell’energia e delle commodity e alle preoccupazioni per un atterraggio duro in Cina, l’imminente ciclo di rialzi dei tassi e il (collegato) dollaro forte. L’inizio del 2016 ha portato con sé un nuovo elenco di spinte deflazionistiche di cui avere paura: un altro collasso del petrolio (in cui il dimezzamento di prezzo per il secondo anno che un tempo avevamo escluso è diventato all’improvviso molto più plausibile), l’ipotesi di una nuova svalutazione cinese e il timore crescente che gli Stati Uniti stiano addirittura entrando in una vera e propria recessione. Per effetto di queste voci di deflazione, all’inizio di febbraio i breakeven a 5 anni hanno raggiunto i minimi post-crisi allo 0,95%.
Ma il quadro di inflazione sembra essere cambiato negli ultimi mesi. L’indice IPC è all’1,4%, mentre il PCE di fondo è all’1,7%, non troppo distante dall’auspicato 2% e comunque già al di sopra del livello di picco ipotizzato dalla Fed per la fine del 2016.
Le forze inflazionistiche accelerano e si espandono, e sta succedendo rapidamente. I dati recenti mostrano che i prezzi dei beni, nonostante il dollaro forte, adesso sono in aumento. Inoltre, il rialzo sta coinvolgendo anche le componenti “vischiose” dell’inflazione, rappresentate in larga misura dai servizi, al momento a un ritmo del 2,5%. Le spese di locazione continuano ad essere una fonte di incremento dei prezzi ed è interessante notare che anche le spese mediche mostrano segni di vita, dopo il periodo di stagnazione seguito all’adozione dell’Obamacare.
È vero che i costi energetici restano al palo (e febbraio sarà un mese ancora più negativo di gennaio per il contributo dell’energia), ma tra qualche mese, purché il prezzo del petrolio si stabilizzi ai livelli attuali, gli effetti base negativi cominceranno a scemare progressivamente. Quando succederà, il rimbalzo dell’inflazione statunitense sarà superiore a quello visto in Europa e in Regno Unito. Inoltre, il mercato del lavoro è più contratto negli USA che in qualsiasi altro Paese e i salari cominciano a comportarsi come se il NAIRU fosse stato raggiunto.
Tre mesi fa l’inflazione era più vicina allo zero che all’obiettivo. Oggi è più vicina all’obiettivo che allo zero e tende al rialzo. Il mercato obbligazionario chiaramente se ne sta accorgendo. Come illustra il grafico in alto, i tassi di breakeven a 5 anni negli Stati Uniti sono aumentati di circa 40 punti base nelle ultime tre settimane, e il rialzo è stato analogo nel Regno Unito. Molto dipende dal prezzo del petrolio nel breve termine, ma se i dati di inflazione continuano a muoversi verso l’obiettivo, è probabile che i breakeven possano andare oltre i livelli raggiunti finora, forse anche di molto.