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Il rosso e il blu di Giuseppe Piccioni

Creato il 28 settembre 2012 da Spaceoddity
Ci sono, a occhio e croce, due possibilità: o racconti una storia o dici qualcosa (o tutte e due le cose, nei casi più fortunati). Mi sfugge, a dire il vero, a quale categoria ascrivere Il rosso e il blu (2012) di Giuseppe Piccioni. L'etichetta del film farebbe pensare alla scuola - alla scuola più retriva, una scuola che segna i tuoi errori e li classifica, inesorabile -  ma si capisce subito che c'è dell'altro. Un'intera società allo sbando affolla le aule di questa palestra per la vita, una società senza speranza e senza riscatto, alla deriva, si posteggia tra i banchi, incapace di crescere. Nei confronti di questo mondo inaridito, la scuola si dimostra sempre inadeguata, sempre in debito, i docenti poco più che grumi di nevrosi e di stranezze più o meno sgradevoli e grottesche. I ragazzi, poi, con le loro occhiaie, con le pettinature, con i loro sguardi piantati altrove, danno l'impressione di una sfida senza speranza, di una ottusità o di un'anomalia in definitiva irredimibile.
Il rosso e il blu di Giuseppe PiccioniIn Il rosso e il blu, le storie personali o sono patologiche o annegano in un sordo anonimato. Non c'è personaggio che rifugga dai luoghi comuni: il campionario umano è realistico, dalla preside materna e in difficoltà (Margherita Buy) al supplente motivato e romantico (Riccardo Scamarcio); dalla tartagliante professoressa di chimica alle prese con volute bioesistenziali all'insopportabile cinismo di una vecchiaia (in Roberto Herlitzka) ancora più disperata della giovinezza (e suo evidente frutto, o causa); dall'alunno con fortissimo disadattamento psicologico a quelli demotivati, privi di ogni ambizione e crescita personale. Per non parlare dei genitori, o arroganti o stupidi o ciechi e accecati dall'orgoglio. La scuola sarà il termometro della società, e sono d'accordo, ma allora la scuola deve essere protagonista di un film sulla società, non laboratorio di analisi occasionale, dove l'interazione non esiste e ognuno insegue il proprio cruccio (e non più il proprio desiderio). Selezionando bene gli obiettivi e il messaggio del film, si può essere ancora più crudi e più realistici - come ha fatto Tony Kaye nel fortissimo Detachment - senza rinunciare a carattere e profondità.
Se alcuni attori superano la dimensione monolitica della maschera (soprattutto, credo, il giovane e bravo Davide Giordano) e altri collaborano a definire un po' i contorni (Gene Gnocchi), se - ancora - alcune inquadrature dei ragazzi meritano (in particolare le primissime), rimane in bocca il sapore amaro di un film lento, con vuoti narrativi e una sceneggiatura forzata.

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