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Il Rugby assomiglia alla pallanuoto, parola di Toni Desantoli
Creato il 03 novembre 2012 da H2opolo @edoardo_ostiToni Desantoli è giornalista di lunga data e ha voluto regalare il suo gesto d'amore nei confronti del rugby, sua passione, proprio qui su spreading. Sinceramente non mi aspettavo che il mio impegno superasse i confini della pallanuoto per arrivare addirittura davanti agli occhi di un professionista della carta stampata, innamorato peraltro di un altro sport: è un motivo di orgoglio che vorrei condividere con voi in questo bellissimo articolo da leggere tutto d'un fiato.
Come si scrive di Rugby in un bellissimo Blog come questo dedicato alla Pallanuoto? Come si giustifica quest’intrusione??
Care lettrici e cari lettori, Pallanuoto e Rugby non saranno nati dalla stessa costola, eppure s’assomigliano, e parecchio.
In entrambi gli Sports, quel che più conta è lo spirito di sacrificio, la concentrazione, la tenuta nervosa. La classe, e vale a dire l’estro, l’immaginazione, viene dopo. E’, sì, necessaria, ma, almeno secondo noi, viene dopo. Prima c’è lo sforzo del singolo e della squadra intera. Lo sforzo, quella tensione che nobilita l’agonismo, e che basta esso solo a conquistare la nostra ammirazione e a far sentir bene chi né stato artefice. Lo sforzo è “eroico”. E’, di per sé, una vittoria. Pallanuoto e Rugby: due Sports nei quali “non” ti puoi defilare, non ti puoi nascondere, non puoi affatto gigioneggiare. L’uno e l’altro ti smaschererebbero subito. L’uno e l’altro ti pongono di fronte a te stesso. Ti mettono a nudo. Così dev’essere.
Il RUGBY E’ SPORT fatto “soltanto” per “gli uomini forti”?. Per i belzebù, i rodomonti, i bellicosi? Nossignori. Non sono loro i soli abitanti del Pianeta della Pallaovale: il Rugby è popolato “anche” di uomini che giocano a Rugby per combattere la paura. Io sono sceso in campo sempre col terrore addosso: il terrore di ritrovarmi con un trauma cranico in ospedale, di subire lo sfondamento del torace, la frattura della mascella. Non è uno scherzo tentare di sbarrare la strada all’avversario che, in possesso del pallone, punta su di te a gran velocità: una massa di 80 o 90 o 100 chili che saetta a 32-33 chilometri all’ora; che sono tanti, credetemi. Non è uno scherzo fiondarsi in cerca della palla dentro il “pacchetto di mischia” avversario, 7 o 8 uomini dai riflessi felini, pronti a stritolarti, a schiacciarti sul terreno. Non è uno scherzo ricevere un passaggio lento (“ritardato”, nel nostro gergo), fiacco o, come si dice dalle mie parti in Toscana, “loffio”, e a quel punto sai che non appena il cuoio s’incontrerà con le tue mani, uno o due, o anche tre, antagonisti ti abbatteranno come si deve: ti stamperanno sul terreno; nella ‘migliore’ delle ipotesi, ti costringeranno a un volo di almeno un metro, un metro e mezzo… Com’è accaduto un’infinità di volte a me.
La paura però non ti piglia negli spogliatoi mentre ti cambi nel silenzio che è prezioso ai fini di raggiungere l’indispensabile concentrazione. Anzi, ti senti bene; ti senti sempre bene, nel fisico e nello spirito, mentre ti prepari alla “guerra”. Come i soldati, o almeno i soldati d’una volta, che non venivano nemmeno sfiorati dall’idea di poterci rimettere la pelle sulla linea del fuoco. La paura ti attanaglia non appena scendi in campo, o non appena ha luogo il calcio d’inizio, col pallone spedito nel cuore dello schieramento opposto. Ma essa svanisce… Svanisce al primo assalto della tua compagine. Vedi i tuoi compagni attaccare a ventaglio, con verve, con brio; vedi il tuo portatore di palla che va in modo imperioso allo scontro, o esegue in maniera repentina la finta che spiazza mezza squadra avversaria. Hai voglia anche te di darci dentro. Ci dai dentro. Ti coglie un’esaltazione che, tuttavia, non è certo l’esaltazione del Rambo… E’ uno stato d’animo “leggero”, dolce, anche se questo può sembrare una contraddizione in termini. Pensi a costruire, pensi a creare. Se poi la tua formazione “gira” bene, all’eventualità di uscire in barella non ci pensi neanche. La paura può comunque riaffiorare in te se, a un tratto, accusi una certa fatica, se ti ritrovi col fiato corto, coi riflessi un poco appannati. Ma, per quanto profonda, essa dura una manciata di secondi: ti rimetti sulla strada dell’antagonista, in qualche modo cerchi di fermarlo o, comunque, di frenarne la corsa, magari a soli 5 o 10 metri dalla tua linea di meta. Vinci di nuovo la paura dettata probabilmente, almeno nel mio caso e nel caso di altri rugbisti, dallo spirito di conservazione. E’ una questione d’onore. Assolvi così il tuo compito e nel tuo animo si stabilisce una gran letizia. Il Rugby è “anche” questo.
NESSUN ADDESTRAMENTO…
Arrivai al Rugby in “tarda” età. Avevo 19 anni, s’era nel 1965, mi tesserai presso il Cus Roma, che all’epoca, con la Partenope, l’Aquila, il Rovigo, il Treviso, le Fiamme Oro Padova, si batteva per la conquista del titolo di Campione d’Italia. Il luogo era un incanto. Era l’Acquacetosa, Roma Nord, una spianata ondulata, sotto il costone dei Parioli, tutto molto allegro, oserei anche dire leggiadro, idilliaco. Il Cus Roma in quegli anni s’allenava e disputava le partite interne all’Acquacetosa. Alle gare casalinghe c’era sempre un certo pubblico, numerose le ragazze, belline, “chic”. Chi non perdeva un solo match casalingo di noi gialloblù, era Alberto Lupo, all’epoca uno degli attori di teatro e della Rai fra i più popolari in Italia.
Ricordo che a quei tempi l’addestramento al placcaggio, almeno al Cus, era pressoché inesistente… Vigeva il “principio” secondo cui, a placcare dovevi imparare in partita – nella bagarre, nel tourbillon, nel “”cataclisma””!. Non era giusto, non era saggio. Ma così era. I belzebù tuttavia imparavano presto, non volevano altro, non aspettavano che questo… Quelli come me, invece, in difesa stentavano. Ci impiegavano parecchio tempo a raggiungere un miglioramento almeno decente sul piano, appunto, del placcaggio. Miglioramento, sì, soltanto “decente”. Non sono mai riuscito a placcare “basso”, vale a dire, a volare a pelo d’erba per serrare nella dovuta morsa le gambe dell’antagonista che arrivava di gran carriera. Andavo sempre “alto”, puntavo, cioè, al torace dell’avversario e, talvolta (confesso!), alla gola... Certi “misfatti”, insomma, li ho compiuti anch’io… Ma per me quello era il solo modo di rendermi utile in difesa ai 14 compagni che sputavano anch’essi sangue e da te esigevano attenzione, decisione, resistenza.
IL CASO MONTGOMERY
Ecco a voi Percival Montgomery, classe 1974, sudafricano. Estremo, mediano d’apertura, tre-quarti centro della Nazionale sudafricana, della Western Province, Natal Sharks, Newport Rugby Football Club, Perpignano. Alto, biondo, capelli lunghi (foggia tardi Anni Sessanta-Anni Settanta), un po’ dinoccolato, uno con la faccia “da attore del cinema”, con “l’aria del tennista”, il fusto dallo sguardo ‘assassino’, ammaliatore… Campione del Mondo col Sudafrica nel 2007. Percy Montgomery: 102 partite in Nazionale (record assoluto sudafricano), 893 i punti segnati per gli Springboks, eccellente nel gioco al piede, eccellente nel gioco d’attacco, sicuro, efficace in difesa grazie, soprattutto, a un tempismo “animalesco”.
Efficace in difesa… Certo, ma fino a un dato giorno nella sua vita di ragazzo che dal Fato sembra aver ricevuto tutto quel che si può desiderare – e anche qualcosa di più. Se ben ricordo, siamo nel 2002 o 2003, la notizia fa in quattro e quattr’otto il giro del Sudafrica: Montgomery frana in difesa… Montgomery non placca più…! Percy è stato colpito “a tradimento” dal blocco, dal blocco del “tackle”. Una forza ostile e oscura s’è insinuata nella sua psiche, nella sua psiche è presto dilagata. L’uomo ora trema alla sola idea d’affrontare (come in altri milioni di volte ha invece affrontato) l’avversario lanciato, lanciatissimo, duro, “spietato”, “il rullo compressore”, “la macchina da guerra”. Eppure, avvisaglie non ce n’erano state: la sindrome (se in questo modo la si può chiamare) s’è appunto manifestata così, all’improvviso, in modo incomprensibile – inesplicabile. Sbigottimento, imbarazzo, senso di frustrazione: la vita più non sorride, più non dispensa vittorie e trionfi allo Springbok con “l’aria del tennista”. Lui non sa venirne a capo. Per la prima volta nella sua avventura terrena, non capisce quel che gli sta succedendo. Si sente sconfitto. Battuto da un avversario invisibile!. Secondo alcuni, passa notti insonni. E chi l’avrebbe mai detto…? Quella “saracinesca” in difesa, quel “dardo” in attacco!
Per fortuna, questa è una storia a lieto fine. La Federazione sudafricana affidò Percy a uno psichiatra, a uno psicologo. In pochi mesi la sua psiche venne ‘riaggiustata’. Lui tornò a placcare, con l’efficacia d’una volta, con lo stile elegante e perentorio d’una volta. Ma ecco: “anche” l’incomparabile Montgomey, in campo, a un dato momento, s’era ritrovato schiacciato dalla paura dello scontro fisico. Molto umano tutto questo.
L’INDIVIDUALISMO, QUESTO SCONOSCIUTO
Lo Sport del Rugby non è fatto per gli individualisti. Oddio, qualche bell’individualista attraverso le epoche s’è presentato anche sul Pianeta della Pallaovale. Ma di sé non ha lasciato un buon ricordo. Come Daniel Cipriani, mediano d’apertura di padre caraibico e di madre inglese, nato nel 1987 in Inghilterra, ragazzo dal talento “mostruoso”: grande visione di gioco, finta secca, “”maledetta””, passaggio impeccabile, tocco di palla “alla Rivera”. Ma ragazzo impudente, umorale, incostante, suscettibile. Nazionale inglese in 7 occasioni. Ma a “quota” 7 lui s’è appunto fermato. La Federazione inglese nel 2008 disse “basta”. Non tollerava più i capricci del “fenomeno”, del rampollo che si considera “indispensabile”, del giocatore il quale pretende che l’intera squadra sgobbi e ruoti intorno a lui; del parvenu al quale tutto è dovuto… Di Danny Cipriani, della meteora Cipriani, non si parla più da un pezzo: passato quasi inosservato pochi mesi fa il suo ritorno dall’Australia in Inghilterra, dove è stato tesserato (per sua somma fortuna) dal Sale.
La sortita personale fine a se stessa nel Rugby non è ammessa. Non lo è a ogni latitudine. Popoli pur ben diversi gli uni dagli altri (inglesi, francesi, australiani, neo-zelandesi, argentini, italiani) sul terreno del Rugby sfornano giocatori convinti dell’insostituibilità del collettivismo. In campo non ci va la “stella” insieme a 14 “facchini”. In campo ci vanno 15 uomini che rappresentano un cuore solo, una volontà sola. Si vince in 15, si perde in 15. Sullo stesso piano vengono collocati il mediano d’apertura che col suo estro e la sua rapidità d’esecuzione apre voragini nello schieramento avversario, e il tallonatore impegnato per 80 minuti nel gioco chiuso, aspro, della ‘mischia’; ficcato dentro una triremi… Vai, rema, e rema bene, senza un solo rallentamento!. Entri da giocatore nel mondo del Rugby e dopo meno di un mese senti di far parte di un organismo prezioso, un organismo che pulsa, scalpita, freme, scavalla, ma che dal seminato manco si sogna d’uscire. Capisci quasi subito che il Fato si dimostra quindi generoso con te. T’immedesimi nei tuoi compagni, nei tuoi compagni trovi amici e alleati. Però ti devi saper comportare; ecco, dal seminato è vietato uscire. Nei primi tempi ti rendi conto di poter aprir bocca solo se interpellato… E’ così che si crea l’unione di più caratteri, di più personalità, è così che si raggiunge l’affiatamento necessario. Così accarezzerai sulla nuca, in un moto spontaneo, il compagno che ha commesso un errore “marchiano”: neanche ci penserai a rimproverarlo. Sai bene che il primo a dolersi dello “sfondone”, è proprio lui. Lui, così mortificato, avvilito. Varie volte ho visto giocatori con la lacrimina sul volto o in preda a un grosso disagio, per aver, appunto, fatto la frittata…!
Il Rugby è “troppo” duro, severo, per ridursi a palcoscenico del “solista”. Qua la forma senza sostanza, valore non ha. Ma la sostanza presenterà sempre una gran bella forma. Una forma smagliante.
Chi sono, di Toni Desantoli: Sono nato a Firenze nel 1946. Svolgo il mestiere di giornalista dal 1967: ho cominciato alla "Nazione", nell'ottobre di 45 anni fa; in tutti questi anni ho scritto articoli "di fuoco" (politica interna, politica estera, Costume), ma non ho mai subito denunce poichè sapevo non prestare il fianco a denunce.
Alla "Nazione" degli Anni Settanta collaborava un gran bel pallanuotista; Paolo Pepino, della Rari Nantes. Mio capo-servizio (Sport) alla "Nazione" fu il Giordano Goggioli nazionale di Pallanuoto negli Anni Trenta e Quaranta. Vivo a Roma dal 1988, ma a Roma avevo già vissuto in un primo tempo da ragazzo, fra il '61 e il '67. Fu difatti qui a Roma che nel '65 tentai la via del Rugby... Il mio ruolo è quello di mediano d'apertura, n. 10. Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su Facebook
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