Ci sono alcune cose nella tua vita che cambiano in maniera repentina senza una giustificazione motivata, una tra tutte: l’aumento del prezzo del biglietto delle serate di alternativa cinema che da 4,50 passa a 5 euro.
Ho atteso diverso tempo per vedere Il Sacro GRA di Francesco Rosi, vincitore dell’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Finalmente ci sono riuscita, e aggiungo che il progetto mi è piaciuto molto per minimalismo ed essenzialità.
Il lavoro è un documentario che testimonia il microcosmo che ruota attorno al Grande Raccordo Anulare di Roma. Non una storia banale, ma una rete che aggancia aspetti di un’area che tutti noi sottovalutiamo, poiché concentrati nell’attesa di dover approdare in quella Capitale plasmata da mille riferimenti cinematografici, secoli di storia e forzature televisive.
L’elaborazione filmica nasconde una forte riflessione sul tempo, e il linguaggio adottato è quello di un’osservazione che non vuole indugiare troppo, che si rende concreto nella ripetizioni di alcune sequenze, mostrando personaggi soli e al limite del surreale. I protagonisti, sebbene non abbiano identità da grandi attori, assumono nel corso di tutta la visione una struttura limpida, senza la storpiatura o la rottura di un ciak forzato.
La percezione che si ha è di una narrazione vissuta senza il minimo sforzo, poiché è tutto rivelato ai nostri occhi, come se di punto in bianco scorgessimo una tenda e scoprissimo un mondo che è sempre stato lì, ma che guardiamo per la prima volta denudandoci da tutta quell’indifferenza che ci aveva contraddistinto fino a quel momento.
Forse questa è la chiave di lettura adottata dal regista nella sua fluidità dei novantatré minuti. Forse è questo il mio punto di vista su una visione che consiglio a tutti, senza troppo impegno, senza troppe attese e senza troppe disattenzioni.
Non so perché mi è tornato in mente Tokyo Ga di Wim Wenders.
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