Il Salento delle città apparate: i caratteri sensibili dell’arte e il tono di comunicare la sua storia
25 novembre 2013 di paolomarzano
di Paolo Marzano
Da uno studio di Paolo Marzano sulle opere del pittore Francesco Solimena e la sua scuola, ecco alcuni dei particolari, presenti per la maggior parte nelle sue opere, con le varie figure o gruppi di figure … la didascalia continua in coda all’articolo.
Colgo con interesse, l’occasione offertami dalla nota a margine che il sagace commentatore, aggiunge al mio ultimo articolo: Il Salento delle città apparate: l’irlandese pozzo di San Patrizio, a Nardò per cui ritengo sia estremamente utile, ampliare la riflessione, coinvolgendo più particolari nella descrizione (inerente ‘la lettura’ dell’altare preso in esame e situato nella cattedrale di Nardò, di cui parla lo scritto) per poi trarne maggiori elementi di confronto e verifica.
L’analisi che riguarda l’impostazione compositiva dell’altare, esaustivamente concepita a scopo ‘moralizzante’, è completata anche dagli attributi decorativi e simbolici delle figure ‘narranti’. Una serie di sculture che appaiono negli ‘anfratti’ delle colonne tortili, come se fosse un retablo ‘ripiegato’ o una pala d’altare con ante richiudibili, come quelle in rilievo, famose nel nord Europa. Dunque, figure a tutto tondo ‘esposte’ anche a coronamento dalla complessa ‘macchina devozionale’ che, intesi ri-nominare, proprio in quello scritto, provocatoriamente, “del Purgatorio di San Patrizio”, cercando di legare maggiormente la sua “cimasa”, al resto della scenografica e spettacolare composizione dell’opera tutta. Nella stesura del testo, poi, quella che doveva essere una semplice risposta al ‘tono’ inatteso, del commentatore, si è poi ampliata, con lo scopo di superare l’incomprensione o la disattenzione, causata, molto probabilmente, dalla mia, forse troppo sintetica, traduzione dell’opera. Occorrono allora maggiori approfondimenti, sempre legati al metodo d’approccio, indirizzati a tradurre, con particolare chiarezza, il ‘testo’ scolpito nel suo ‘eloquente’ svolgimento. Un trattato teologico in nuce, per il quale, l’elemento comunicante diventa la pietra. E’ l’esistenza umana che l’ispiratore del ‘testo’, poi pietrificato, assoggetta continuamente agli ‘equilibrismi’ (angeli, puttini, loeni, scimmie e corde di sostegno per la salita ‘morale’) della vita, per cui la complessa trama intreccia la lectio divina e la lectio humana, espressa dall’interessante, diversificata e sempre più stratificata, storia che contraddistingue il nostro patrimonio artistico. Ecco perché ritengo necessario, a questo proposito, ancora più accortamente, ri-considerare alcune parti della nota ‘apposta’, come spunto di utile chiarimento per il commentatore e di maggiore riflessione per i lettori.
Se si fosse letto con un po’ più di attenzione, magari senza quell’irrefrenabile tensione (leggibile fra le righe) immotivata, accompagnata da un incomprensibile ‘tono’ diretto, non intellettualmente a confutare, ma palesemente a redarguire l’altrui ipotesi, ci si sarebbe facilmente resi conto che, in premessa, ho dapprima individuato l’importanza delle cimase, in generale (che, per facilitare l’attento commentatore, ho scelto, esistenti a Nardò), come evidenti “titoli” di testa, degli altari, di cui la riquadratura centrale, rimane un “sottotitolo”, solo se l’altare, pregevolmente lo fa intendere, con il suo impatto scultoreo e la sua potenza persuasiva. D’altronde assume certamente un’importanza rilevante ‘accingersi’ a comprendere le figure ed elencarne le posture, il vestiario, i gesti e gli attributi che, necessariamente, devono guidare la lettura di queste preziosità, sia della riquadratura centrale sia della cornice dell’altare che la presenta attivando altri mezzi d’informazione tridimensionale. Fondamentale è responsabilmente ammettere che gli approcci all’opera d’arte sono molteplici e differenziati, questa è la variabile che risolve il sistema della complessità della storia.
Gli esempi di cimase prese in considerazione, nello scritto, sono state; quella della facciata del S. Domenico, i cui originali capitelli-insegna, vennero innalzati su un ‘ordine’ gigante (e poi vedremo perché questa scelta) a monito delle rigide regole domenicane. Se si fa caso, predisponendosi, non a sottolineare gli errori altrui, ma consolidando la propria esperienza e mettendola al servizio del lavoro di ricerca, anche con il contributo di altre intuizioni o ‘paesaggi critici’ possibili. Tali elementi verticalizzano, la parte centrale della facciata, grazie all’uso delle colonne binate a tutto tondo, in basso e continuando con le paraste estroflesse al secondo livello, che andrebbero, ritengo, meglio contestualizzate e lette, includendole in una visione generale. Ma in che senso?
E’ presto detto. Non esistendo ancora il protiro, dell’ingresso della chiesa, addossato alla facciata, che sappiamo costruito dopo il terremoto (è mia ipotesi, forse per mascherare l’antica e ‘persistente’ lesione centrale derivata dalla presenza di una grande cisterna in basso, usata da tutta la città nei periodi di lunga siccità), l’ordine gigante torna un utile strumento di partizione dei registri verticali. Le ‘forti’ e ‘solide’ direttrici infatti dividono le parti dello spazio sulla facciata che così ripartita, delineerebbe, ritengo, un ‘arco di trionfo domenicano’. Se negli anni ’70 il Manieri-Elia, pone la soluzione del portale d’ingresso al castello di Copertino come riferimento, all’antecedente concezione progettuale, della doppia quinta dell’Arco trionfale di Castelnuovo a Napoli, a me pare che sia possibile, e qui ritengo confermare l’ipotesi, dopo alcune interessanti comparazioni, assecondare proprio quell’insistenza, nella facciata del S. Domenico, della verticalizzazione che supera, certo con qualche difficoltà, il terremoto del 1743 e che restituisce funzionalità (sarebbe infatti visivamente molto pesante, se non fosse stato previsto e interpretato come l’imponente struttura di chiusura di un arco di trionfo), all’evidente troppo aggettante cornicione posto a coronamento e chiusura della geometrica forma dell’arco di trionfo, diventato a Nardò (le caratteristiche ci sono tutte), la facciata di una chiesa. Un arco a tre fornici col trionfo dei paramenti, come un ‘autos sacramentales‘ pronto a muoversi per le strade, e dunque, solitamente decorato alla maniera antiqua, anzi ‘apparato’ e dedicato, dai Padri Predicatori, alla (sempre auspicabile) vittoria (trionfo, appunto) sull’eresia. Un’ intuizione interessante quella di innalzare una così imponente struttura monumentale, molto probabilmente dovuta all’audacia, tanto innovatrice quanto lungimirante, ispirata dal ‘savio’, Ambrogio Salvio. I campanili, le facciate che ricalcano archi durazzeschi, le colonne monumentali, le guglie, non dimentichiamolo, rientravano nel sistema di ‘risimbolizzazione degli apparati’, capaci di mutare senso e funzione del luogo. E dove non c’erano, s’innalzavano campanili ‘vestiti’ da linguaggi chiari e visibili da ogni direzione. Tramutati in ‘segni’ e riferimenti urbani, facilmente riconoscibili come immagini utili ad un continuo riferimento ‘imago agens’, posizionate strategicamente nei punti principali, di prospettive cittadine derivate dalla realizzazione della sequenza di ‘loci urbani’ intesi come ‘fedeli mentori’ dei percorsi meditativi necessari a cittadini ignoranti e da cristianizzare. Un processo conoscitivo che i domenicani conoscevano bene, nella loro ferrea disciplina educativa legata alla pratica ‘didattica’, fra la gente.
Anche la città percepita dall’ ‘imago urbis’, con i suoi spazi e i suoi simboli onnipresenti, quindi, poteva insegnare alla popolazione molto più di quanto si poteva praticare educandola ‘faticosamente’ con la teologia. Da questa esigenza nascono gli altari o le facciate che ‘raccontano’ le scritture. Di solito caratterizzati da un inizio “cimasa o coronamento” e una fine “ basamenti delle colonne o mensa” (o viceversa a seconda di come si stabilisce il senso della narrazione. Di solito, come nel nostro caso, si preferiva quella ‘ascensionale’ che rispetta la luce naturale e la direzione ‘moralizzata’, a serpentina o a vite, con mille volute, proprio come l’incenso che si innalza dal turibolo).
Immagine con ipotesi di Paolo Marzano, della facciata della chiesa di S. Domenico a Nardò, senza il protiro d’entrata. Non esistendo ancora quella struttura, addossata all’ingresso della chiesa, in quanto costruita dopo il terremoto del 1743, notiamo come sia chiaro l’ordine gigante che svetta fino al cornicione in alto. Decise linee verticalizzanti che adempiono al loro compito di partizione dei registri in altezza, utile strumento per lo scopo. Le ‘forti’ e ‘solide’ direttrici, infatti, compongono le direzioni dominanti e delimitano gli spazi dei paramenti allegorici sulla facciata, definendo tutte le caratteristiche di un grande ‘arco di trionfo’ domenicano a tre fornici, eretto e apparato dai Padri Predicatori, dedicato alla (sempre auspicabile) vittoria sull’eresia.
Oppure, una ‘cimasa’, come nel caso del Mausoleo dei Duchi Acquaviva, nella chiesa di S. Antonio, che ho interpretato, come una ‘macchina’ preziosa impostata sullo schema di un “monte della pietà” scolpito, a scopo commemorativo e allo stesso tempo celebrativo. Com’era chiaro nella strategia familiare degli Acquaviva. Infatti, anche per tale originale e ricco apparato, non venne tralasciata l’occasione di esplicitare, nell’ambito caritatevole-assistenziale, di devozione e d’osservanza minore, il desiderio di fregiarsi di un capolavoro scultoreo dignitosissimo, distinguendolo per dettagli e fattura, nella scelta e nell’importanza dei messaggi intellettuali costantemente lanciati ai regnanti italiani ed europei, quindi all’impero. Perciò l’opera (da definirsi non ‘pre-barocca’) si può inserire, ritengo, nella cultura letteraria, mitologica, filosofico-cavalleresca, adeguata al rango (scopo prioritario degli Acquaviva) di una delle sette casate maggiori dell’impero e del Regno di Napoli. E’ da sottolineare che gli attributi, i particolari, i riferimenti alla simbologia non coincidono con quella sempre più ambigua, grottesca e mai adeguata, definizione di ‘barocco’ (può, infatti, la somma ‘algebrica’ di un rivestimento decorativo, addossato a facciate piane o monumenti, rivestite di panoplie, grifagne, riquadri, astragali, rosette, ovuli, trabeazioni, frontoni, modanature, timpani, listellature, colonne con nastri avvolti a spirale, ghirlande fra paraste, pendenti, augustales federiciani, volti e profili, anelli, funi e legacci scolpiti, putti infrascati e giocosi o medaglioni, costituire il solo motivo di una lettura ‘barocca’ degli elementi? E cosa le distingue, dall’essere invece considerate solo e proprio, per la loro natura di ‘elementi’ appartenenti all’abecedario della filologia antiquaria, già discussa?
Chi mai, per esempio, chiamerebbe l’architettura del Giovanni Maria Tarantino, importante neretino, barocca? La rosa e la corona Per cui il termine barocco, alfine, rimane e rimarrà, ritengo, motivo di disquisizioni a conferma dell’ambiguità della sua natura ‘solo’ tatticamente persuasiva e visivamente suadente. Su questo argomento vedi anche:
Lecce: la filologia antiquaria e la colonna inglobata riccardesca
Quel toro rinchiuso nella… parasta
Nardò: Il Dies Irae medievale fra le pagine del S. Domenico
Intorno al Mausoleo dei Duchi Acquaviva di Nardò
Di certo quella filologia antiquaria, ritengo rappresenti un codice abbastanza riconosciuto, ben definito e usato da tutta una serie di personaggi, nei laboratori di artigiani, artisti, architetti o costruttori. Riportata e pubblicata in diversi trattati, testi e molto probabilmente anche su taccuini di viaggio che non è possibile porre tra gli scaffali, sotto la voce pre-barocco o barocco o ancora post-barocco. Il recupero del ‘lessico’ antiquario non si evolve infatti nel senso barocco, né ha mai scelto quella direzione di trasformazione. E’ chiaro, poi, che se una maggiore analisi, dell’impianto del Mausoleo degli Acquaviva di Nardò, venisse, come ritengo sia molto probabile, riconosciuto come attinente ad un preziosissimo “sacro monte della pietà” (e tutti i particolari che leggo, guidano in quel senso), la cimasa (ora mancante), potrebbe coincidere con una tra le diverse composizioni dipinte o scolpite esistenti nello stesso periodo o precedenti non solo in Italia. Risultano chiari, allora, quali “gruppi” o “figure singole” possano ‘reggere’ l’apparatura, dell’incredibile, imponente e suggestiva macchina monumentale, con la diffusa “Imago Pietatis”, nelle sue varianti posturali europee dal senso prettamente ‘caritatevole’. Lo spazio in alto della cimasa, se ci facciamo caso, essendo presentandosi come un ‘quadrilatero’ dai lati decorati, a nicchie conchigliate presupporrebbe, ‘accogliere’ un gruppo di figure (attendiamo dunque i risultati del realizzando restauro che aggiornerà la storia del monumento).
Quale possibile “IMAGO PIETATIS” (ora mancante) c’era sul coronamento del Mausoleo dei Duchi Acquaviva d’Aragona a Nardò? Secondo l’ipotesi di lettura di Paolo Marzano, il prezioso monumento è stato interpretato come una ‘macchina’ densa e complessa, impostata sullo schema del “Monte della Pietà” scolpito a scopo commemorativo e, in questo caso unico e originale, celebrativo (virtù cardinali, panoplie e tutto il bagaglio della filologia antiquaria. In basso le ipotetiche soluzioni a cui poteva fare riferimento la cimasa del monumento. Tali composizioni al tempo della costruzione del Mausoleo degli Acquaviva (1545) di Nardò, erano molto diffuse in tutta Europa.
E ancora, ‘cimasa’ come quella della Guglia di piazza Salandra a Nardò che, dalle ultime notizie, anche quelle del recente documento del Di Furia, parrebbe attinente ai disegni dello ‘slancio’ grafico (quasi un puntale) dell’apice, del disegno del Sanfelice, come diversi autori hanno evidenziato. Sembrerebbe importante, secondo me, non tralasciare, l’esercizio del precedente Fanzago, per il disegno della guglia di San Gennaro dell’Archivio della cappella del tesoro che andrebbe rivalutato, alla luce di un uso particolare degli elementi classici reinterpretati e creativamente rielaborati. Infatti sia il Fanzago prima e il Sanfelice dopo, appongono lo stesso segno ad una struttura già data. Tracciano delle curve, simili (a goccia) disegnate però sul fusto di una colonna, ‘moralizzandola’. L’intento o il salto concettuale credo, non possa risultare leggibile e neanche percepibile, nel caso di Nardò, non esistendo il fusto della colonna (come elemento archeologico ritrovato e da cristianizzare obbligandolo ad un ‘basamento’ e ad un ‘coronamento’ devozionale) come concetto classico e principio compositivo della guglia neritina stessa. Invece ritengo, che tale opera, sia straordinariamente rispettosa, del lavoro sperimentale, nell’uso degli attributi fanzaghiani più che sanfeliciani. Occorrerebbe infatti riconoscere l’importanza e l’incredibile ‘recupero’ della terminologia classica che domina la struttura, sommessamente in sintonia col lineare-architettonico del manierismo tarantiniano (cartigli e riquadri floreali appesi come drappi), presente a poche decine di metri, sulla facciata del S. Domenico, ma dal quale, però poi, decisamente si discosta, per l’uso di una geometria classicista, pesante, ridondante e surreale, inserita nel gioco micro/macro (fuori scala). Una pratica artistica legata strettamente alla consueta applicazione artigianale d’apparato (evidente l’utilizzo ancora una volta ‘della riserva’ di attributi della filologia antiquaria) ad una macchina devozionale. Gioco facile per una guglia derivata dalle fantastiche macchine da festa, ma con un approccio scultoreo e compositivo che la Cantone riferisce giustamente, (per il Fanzago) all’ornatus delle figurae della retorica, qui presenti come parole e pensiero tramutato in immagini scolpite.
A favore di questa mia ipotesi fanzaghiana, della guglia neritina osserviamo la serie, ai diversi livelli dell’opera, di triglifi decontestualizzati dal fregio, anche se con grandi gocce, allegate e qui, però, trasformate in ‘pendagli’ da baldacchino o da corde di gonfalone o funi di drappo che orna oggetti sacri. Poi si notano volute a cartiglio che si rinchiudono o ancora piccoli obelischi, rosette (che conosciamo già) e, al primo livello, l’enorme fuori scala del cornicione. Il grande ‘toro’ infatti mostra la fusione linguistica tra una gigantesca modanatura ad ovuli e nello stesso tempo, richiama i contenitori dei trasparenti reliquiari e ancora il bordo cesellato dagli argentieri napoletani per le basi di candelabri, dei ceri pasquali, dei leggii, dei turiboli o dei calici. Anche se per alcuni versi la mole della guglia, nella sua base grossolana e possente, riporta alle nostalgiche vedute dei “Capricci con rovine” del Coccorante. Certo, molte cose sono da verificare, ma la predisposizione ad ‘ipotizzare’ seguendo le logiche delle direzioni dettate dal contesto storico del tempo (anche sulla base della storia dell’arte, delle tradizioni devozionali e dell’effimero architettonico piuttosto che dei documenti) affina il percorso di studio nel procedere a costruire altre intuizioni, continuamente rielaborate da studi ricerche e confronti (non dimentichiamo che il Di Furia retrodata di vent’anni la guglia di Nardò, parlando della festa per la presenza della statua dell’ Immacolata, appena arrivata dalla città partenopea, dello scultore Bottiglieri e che avrebbe completato l’apparato. Ma su quale schema di progetto, fu poi realizzata, invece la guglia? Rimane per ora un quesito interessante da affronatre. Se il gesuita (ricordo volentieri che i gesuiti e i domenicani erano i colti ‘gestori’ del lessico devozionale applicato alla città, conoscevano bene l’uso dei ‘segni’, del loro ‘senso’ in relazione al ‘luogo’. Quindi, la guglia diventa segno dislocato e polo sacro d’attrazione lungo le vie dei misteri) Pepe ispira il Genoino a Napoli per la guglia dell’Immacolata, chi sarà stato l’ispiratore per quella forma e quello stile della guglia, a Nardò? Penso che il lavoro e l’esperienza fanzaghiana (conosciuta e diffusamente adottata) sia stata importante per un possibile riferimento formale e stilistico dell’opera neritina e certamente per i suoi ‘colti’ committenti .
Particolari della guglia in piazza Salandra a Nardò. Paolo Marzano legge la soluzione della guglia neritina come attinente al tipo di progettazione fantasiosa, creativa e surreale ‘fanzaghiana’. Si osservano infatti la serie di triglifi decontestualizzati dal fregio e posti sugli spigoli dei dadi, ai diversi livelli, con grandi gocce (guttae) allegate. Qui, però, trasformate in pendagli. Poi volute a cartiglio, rosette, obelischi e il grande cornicione-toro sullo schema stilistico di una modanatura a ovuli che richiama le forme riconoscibili dei reliquiari o ancora il bordo cesellato finemente dagli argentieri napoletani per le basi di candelabri, ceri, legii, turiboli o calici. L’abecedario degli arredi sacri diventa il motivo dominante per una guglia generata dalle macchine effimere da festa, rivestita di secralità e cardine devozionale di uno spazio denso come piazza Salandra.
Dunque, al fine di interpretare, l’altare preso in esame, come un’opera dedicata a raffigurare il Purgatorio di san Patrizio, leggo tra le indicazioni degli attributi principali, (particolare sfuggitone sono certo, al commentatore) anche i dettagli della cintola dei due angeli laterali con il famoso trifoglio irlandese; intero nel primo angelo a sinistra e diviso in tre parti nel secondo, a destra, proprio come l’esempio che usava di frequente san Patrizio per spiegare il complesso concetto della Santissima Trinità (quindi occorre conoscere la storia del personaggio in questione). Ma il racconto con i tanti riferimenti teologici ben ordinati, secondo una gerarchia ‘moralizzante’, è motivo importante ed utile ad indicare la concretezza della “predicazione” evangelica, convincendo delle pene visibili ed elencate secondo livelli, del sottostante particolareggiato Purgatorio. E questo, è anche un dato appartenente al santo irlandese.
Lo studio della storia è un complesso ‘ambito di prossimità’, non occorrono blocchi di partenza o peggio porsi di fronte ad un’opera con l’ansia da ‘pubblicazione’, presumendo assolute verità. Occorre serenità nell’approccio all’arte che deve essere tranquillamente adagiata su un contesto culturale e storico fatto di dense comparazioni.
Citazioni, elenchi di primogeniture con “l’ho detto prima io! No, prima io! No, un altro…“. L’intelligenza del paziente ricercatore e dell’acuto storico, comporrà a suo tempo, un ordine di relazioni, tra schede, bibliografie e appunti, scegliendole sulla base della ‘caratura’ delle notizie. D’altronde una probabile verità potrà essere posta in un contesto di bugie, come un equivoco modornale, essere incastrato tra tante verità. E sappiamo come, proprio per la storia di Nardò, questo sia importante.
Solo per questo testo scritto, sia chiaro, ogni due righi ci sarebbe una nota riferita a opere, documenti, libri ed a concetti approfonditi da citare e ai quali fare riferimento per ragionare su clamorosi equivoci storici, anche presenti sotto i nostri occhi, ma che a seconda dell’obiettivo che ci si è dato (purtroppo), appaiono o scompaiono, dai testi scritti. La rete, come sappiamo, non è il luogo dove presentare pagine e pagine di bibliografia. Invece quel che occorre notare riguarda il meraviglioso tempio della cattedrale di Nardò da quale imparare ancora tanto. Anche dalle metafore che ci offre; come ho già scritto e pubblicato, esso, sta evidenziando giorno per giorno le complesse sovrapposizioni che lo identificano come uno scrigno sempre più antico e quindi prezioso. Preservarlo vuole anche dire evitare che si degradi nel tempo con interpretazioni monolitiche e immodificabili, magari con l’aggiunta di ‘apparati’ che distorcano la ‘luce’ e deformino la verità (del suo contenuto) del presente, magari nel silenzio indifferente, proprio, di coloro che dovrebbero preservarla.
A proposito della ‘variata’ dislocazione e ri-collocazione nel tempo, di quell’altare, ritengo abbastanza evidente l’irregolarità di alcuni suoi ‘brani’. Inutile rimarcare i dettagli sconclusionati che anche un alunno di un Istituto d’Arte, facendo riferimento alla sua conoscenza delle sole arti applicate, potrebbe distinguere; dissonanze di rifinitura e degli irregolari accavallamenti di profili e cornici, non allineati che non seguono un’unica generatrice geometrica e non sono sullo stesso livello. Diciamo pure che l’altare originale, poteva benissimo seguire la prima inclinazione della cornice della trabeazione che stacca dal fondo e apre ‘leggermente’, senza, come è adesso, rigirare poi ad angolo retto e quindi avanzare maggiormente verso l’esterno.
Vista dal basso dell’altare del “Purgatorio di San Patrizio”, nella cattedrale di Nardò. L’effetto del ‘pozzo’ è ancora più visibile da questa posizione, anche se quella originaria era altrove. Ipotesi di possibile variazione della conformazione originale della struttura, quando non era posizionata nel luogo dove si trova ora.
Ma non è questo che cambia la visione o la mia interpretazione della bella e particolare sezione stratigrafica del ‘pozzo’ di San Patrizio. Magari sarà il ‘pozzo’ di San Patrizio, un po’ più scenografico, da leggere meglio, come un libro aperto.
Il commentatore poi aggiunge descrivendo il braccio del vescovo sulla cimasa dell’altare: ”…il viso e il braccio destro rivolti verso l’alto, nell’atto di intercedere”.
Intercedere? Quel gesto della mano non lo riconoscerei come nell’atto di “intercedere”.
Se quella posizione del braccio, è un gesto che “intercede”, allora, mi accorgo che mancano tessere importanti al discorso di base. Non è mia abitudine consigliare dei testi da leggere, me ne guarderei, ma può farsi indicare, qualche tomo sui gesti cristiani per la comunicazione silenziosa delle figure, specialmente quelli di “intercessione”. Quella di san Patrizio, infatti rimane una mano che stringe un oggetto con forza (vedi il sostegno che si applica dietro alle sculture, quando il volume o l’oggetto sostenuto dalla mano, previsto magari troppo in aggetto, potrebbe spezzare di netto il braccio). L’arto “parrebbe” sostenere un pastorale di cui lo sviluppo quasi cilindrico è impresso nella mano (questo modestamente leggo), ma non trovo adeguato, dire: “è sufficiente questo per confermare… “.
Posizione molto particolare del braccio e soprattutto della mano di San Patrizio sul coronamento del suo altare. La mano, si ritiene, non ‘interceda’. Quella del vescovo irlandese, infatti rimane una mano che stringe con forza (vedi il sostegno più solido dietro al braccio che si applica alle parti di sculture sotto sforzo, quando il volume, non comprende solo la singola mano) l’oggetto previsto, era molto probabilmente un bastone ‘pastorale’, che essendo in aggetto poteva benissimo spezzare di netto il braccio per cui era naturale rinforzarlo.
Per rimanere sempre nella cattedrale e per chiarire ai lettori il caso in questione, faccio un esempio pratico di ‘bottega’ d’altri tempi. Appena venne commissionato il battistero della cattedrale, dal vescovo Antonio Sanfelice, si potrebbe pensare davvero che un intero cantiere o bottega, si sia messo all’opera per scolpire la vasca e i due angeli? O, si può ipotizzare (meglio) che vennero “adattate” delle figure che già si possedevano, chissà dove e in quale spazio della bottega, dagli scultori napoletani? Ma con quale motivazione si può dire questo? Cerco di spiegare.
Si chiamano figure di ‘recupero’, ed è possibile che il santo vescovo, individuato dal commentatore, abbia avuto questa destinazione. La statua, probabilmente, fu recuperata, visto che forse la accomunava, con il “San Patrizio”, la mitria, il vestiario e l’oggetto comune ai due; il “pastorale”. Magari cambiandogli solo il braccio (che sembra anche sproporzionato rispetto al corpo).
Era una prassi, condivisa e molto utilizzata, avere in bottega già sbozzate e sgrossate, quasi pronte, diverse figure (barbute, chiericate, monaci, suore, vescovi, santi, madonne, angeli, putti, diavoli e diavoletti, serpenti e serpentelli, cornici, modanature a metraggio, colonne, decorazioni, infinite tipologie di balaustre, per non parlare di copie in marmo di arredi sacri dai candelieri, ai turiboli, ai rosari, croci, ecc…), alle quali applicare attributi e nomi che, a seconda dei casi, venivano, poi, ‘addobbati’ o ‘apparati’ come si doveva per il ruolo che dovevano svolgere nei luoghi a loro destinati. I due angeli, ad esempio, del battistero della cattedrale; intanto, di sicuro sono stati scelti somiglianti, guance e occhi (stessa mano perché molto particolari) con evidenti lineamenti del viso, giovanili o addirittura presumibilmente infantili (risultato di qualche allievo di una scuola napoletana). Ora, è chiaro che chiunque abbia le minime basi elementari, di storia dell’arte, all’istante leggerebbe, nella figura a sinistra un riferimento, come modello posturale, ad uno degli angeli della passione eretti, sul Ponte di Castel Sant’Angelo in Roma, da Clemente XI sul parapetto del Bernini intorno alla seconda metà del ‘600, in particolare quello del “Super vestem meam miserunt sortem” di Paolo Naldini. Nella figura a destra, invece leggerebbe, come modello, l’ancora più il famoso “Angelo Custode”, simile a quello di Domenico Antonio Vaccaro del 1712 nella Basilica di S. Paolo Maggiore a Napoli (a parte il volto che non guarda il bimbo, e che qui, a quanto pare, non era previsto, forse !?). Il Vaccaro era allievo, con Ferdinando Sanfelice, del Solimena.
Angelo Custode in alcune nelle infinite versioni della storia dell’arte. L’Angelo Custode accompagna un bambino con la mano sinistra e indica contemporaneamente il cielo con la destra. Il luogo indicato è quello della sapienza e il gesto avvicina il bambino all’esperienza della vita vissuta secondo l’insegnamento divino. A sinistra l’ angelo del battistero nella cattedrale di Nardò, di scuola napoletana, su modello del classico e diffuso Angelo Custode. Al centro in basso scultura lignea del primo settecento nella chiesa di S. Antonio Abate a Tovo Faraldi della bottega di Anton Maria Maragliano. Al centro in alto, pittura di Pietro da Cortona della seconda metà del seicento per Papa Alessandro VII, il senese Fabio Chigi; il dipinto rimase nella raccolta Chigi fino al 1918, quando il palazzo con la collezione venne poi acquisito dalla Stato. A destra di Domenico Vaccaro l’ Angelo Custode del 1724 nella Basilica di S. Paolo Maggiore a Napoli.
Quindi, se il primo angelo comunica, col panno o la veste della purezza (già esistente nella storia dell’arte come postura e attributo), la simbologia dell’originale stato di grazia del bambino, l’altro angelo, praticamente, “custodisce” la crescita e la saggezza, ma ritengo che non abbia avuto una torcia (come si è pubblicato) o almeno, le sue tantissime copie nel mondo, con l’uguale postura e gestualità, non ne sono provviste perché, non coinciderebbe la giusta simbologia presa ‘in prestito’ o ‘a modello’ dell’ Angelo Custode. Quindi non si redarguisce presumendo di possedere verità assolute, ma si coinvolgono altre ragioni, specialmente quando generano approcci diversi, sui quali, formulano ipotesi ‘possibili’. Sta alla sensibilità e alla competenza, selezionare poi, quelle valide.
“Ritengo che, molto probabilmente la torcia non ci sia mai stata, ma non escludo tale possibilità, se ulteriori studi, portassero a questa conclusione”. Vede caro commentatore come è facile coinvolgere l’altrui ipotesi senza redarguire con ‘tono’ astorico e fuori contesto?
Ritengo, infatti, importante che il pastorale non sia stato previsto in una posa statica o ieratica, ma tenuto proprio in quella posizione per cui coinciderebbe il gesto di san Patrizio del “tracciare” il cerchio che sprofondò come un ‘pozzo’. Altri confronti e osservazioni in situ, potrebbero far comprendere se il braccio subì rotture o è stato poi riattaccato magari diversamente dalla posizione originale o addirittura ppartiene ad un’altra statua di altre dimensioni. Di certo, in questo momento, abbiamo: una scritta con un nome diverso da quello che gli angeli laterali indicano di sicuro, avendo il particolare del trifoglio appeso alla cintola e un braccio che tende il pastorale come per ‘segnare’ e assolutamente non intercedere. Cosa si fa quando i documenti non parlano quasi mai di un vescovo ‘modificato’, in quanto è un’operazione da bottega artistica? Quel che possiamo controllare è il braccio e poi, magari, dare ragione agli angeli che celebrano, con gli attributi, l’evangelizzazione di San Patrizio, nell’altare del suo Purgatorio, a Nardò.
Coppia di angeli della cimasa dell’altare “del Purgatorio di San Patrizio” nella cattedrale di Nardò. La grande foglia del trifoglio (simbolo irlandese) appeso alla cintola dell’angelo a sinistra, compare poi divisa in tre parti nell’angelo a destra. Il riferimento è alla vita del vescovo irlandese che per spiegare, il complesso concetto della Santissima Trinità, nella sua opera di evangelizzazione in terra celtica, adottava l’esempio del trifoglio che divide in tre parti il solo gambo della sapienza divina. Si ritiene che finché non ci saranno altre ipotesi, con attributi che confuteranno quelli ben visibili, l’altare rimane del “Purgatorio di San Patrizio” a Nardò
Oppure, un altro esempio, di postura ‘traslata’ o di ‘recupero’, tratta da tematiche già affrontate da modelli esistenti, è la tela del san Michele Arcangelo esistente in cattedrale, sempre a Nardò, della scuola del Solimena, come ho modestamente chiarito, motivato e pubblicato. Evidente infatti la carenza ‘dell’impatto’ pittorico e della dinamicità espressiva come della gestualità, del grande pittore sei-settecentesco che influenzò l’Europa. Ebbene, è interessante come l’impostazione generale, abbia attinenza con il conosciutissimo San Michele di Guido Reni diffuso e conosciuto nelle botteghe degli artisti. Lo stesso tema è riconoscibile anche per la maggior parte dell’impianto compositivo, delle posizioni dei personaggi degli oggetti (calzari con decorazioni antiquarie dell’angelo, la catena, la nube, la spira del panneggio che aumenta la dinamicità e la postura. La traccia che il Reni e poi il cantiere del Solimena trattò, è quella derivata dal versetto (Ap 20,1 – 3).
San Michele Arcangelo. A sinistra di Guido Reni 1636, a destra della scuola del Solimena nella cattedrale di Nardò (Le). Il tema del Guido Reni come le diverse altre interpretazioni artistiche è tratto dal brano: “…vidi poi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dall’Abisso e una grande catena in mano. Afferrò il dragone, il serpente antico – cioè il diavolo, Satana – e lo incatenò per mille anni: lo gettò nell’Abisso, ve lo rinchiuse e ne sigillò la porta sopra di lui, perchè non seducesse le nazioni, fino al compimento dei mille anni” (Ap 20,1 – 3)
Quindi, a volte succede che rimanendo troppo o tanto vicini all’opera in esame, o al documento da leggere, ci si dimentichi di conoscerne le relazioni con i luoghi all’esterno, i modelli e la relazione con le botteghe dei maestri, sia del Salento sia della regione della nazione o dell’Europa, del periodo. Allora occorrerebbe fare riferimento all’occhio alato albertiano che dovrebbe riportare sulla giusta via, modulando e favorendo quelle zoommate che regolano la percezione e la curiosità, linfa per l’intelletto. Il tutto amalgamato, però, da quell’ingrediente insostituibile e fondamentale dell’umiltà e della perseveranza, come lo studio e la ricerca, nel tempo, insegnano.
Didascalia dell’immagine di testa: ”Da uno studio di Paolo Marzano sulle opere del pittore Francesco Solimena e la sua scuola, ecco alcuni dei particolari, presenti per la maggior parte nelle sue opere, con le varie figure o gruppi di figure la cui postura, diventa caratteristica determinante per il dinamismo compositivo usato dall’artista e per coloro, che da quella, presero esempio. La ricerca anatomica del maestro sei-settecentesco, la cui arte venne riconosciuta in tutta Europa, diventò modello, per i suoi diversi allievi che sovente fecero riferimento a quelle ‘torsioni’ anatomiche originali inserite nelle sue incredibili composizioni ascensionali come rarefatte colonne d’incenso, di corpi verticalizzanti misti a voluminosi panneggi che a stento coprono ripiegate nudità. Nebbiose e austere architetture coinvolgenti, per contrasto, nubi sostenute da un’ angiolatria persuasivamente estatica, per cui, utilissima allo scopo di effondere la necessaria mistica ‘eloquenza’. I primi due particolari sono compresi insieme e con postura contrapposta nell’opera che si trova al Museo del Louvre a Parigi ne “La cacciata di Eliodoro dal Tempio”, solo il primo viene ripetuto nella chiesa del Gesù Nuovo, a Napoli, nel dipinto con lo stesso titolo e lo ripete ancora nel Museo dell’Arte di Toledo. Il terzo si trova inserito ne “La battaglia tra Lapiti e Centauri”, il quarto è il “S. Michele Arcangelo” attribuito alla scuola del Solimena nella cattedrale di Nardò (Le), il putto reggi corona invece è nell’opera “Giuditta e Oloferne” di Vienna, nel Kunsthistorisches Museum, segue il “S. Michele Arcangelo che combatte gli angeli ribelli” nella decorazione di Palazzo Reale a Napoli. In basso a sinistra di Corrado Giaquinto “San Michele Arcangelo che sconfigge Lucifero” nella pinacoteca Musei Vaticani, al centro, nella Sagrestia di S. Domenico a Napoli, il “Trionfo della Fede sull’Eresia”, a destra il “Martirio di San Palcido” al Museo Nazionale Budapest”.