Storia di un legame inscindibile con il territorio e la sua genteTra Val Marchirolo e Valganna, intorno all’anno 1047Sembra placida la notte, non un rumore che rompe il silenzio. Eppure in questo accampamento tutti vigilano. Il nobile vescovo, mio zio, è stato avvertito del pericolo che incombe, dei rischi che comportano questo viaggio e la sosta in queste valli selvagge. Le terre incolte e montuose dell’alto Seprio sono il covo ideale per i briganti, terreno perfetto per scorribande; una strada che incessantemente vede passare viaggiatori e pellegrini di ogni sorta non può che essere un richiamo irrefrenabile. Cercano pellegrini come noi, in questa nostra discesa verso Roma. Mio zio, uomo del Nord, desiderava ardentemente intraprendere questo viaggio verso la città eterna per rendere omaggio alla tomba di San Pietro e recare in dono preziosi tesori per il Santo Padre. I rischi sono tanti, la fatica divora le membra, i delinquenti si aggirano a ogni angolo di strada, ma questo pio voto va esaudito a ogni costo. Io e il mio compagno Imerio vigileremo la comitiva di pellegrini, proteggeremo i nostri tesori e difenderemo il vescovo mio zio, che già ora starà stazionando non lontano da San Vittore. La stanchezza ci sfinisce, i lunghi giorni di cammino iniziano a pesare, ma non possiamo permetterci di cedere proprio ora: siamo la retroguardia della comitiva del nobile vescovo e il nostro compito è vegliare.
Ecco, all’improvviso il silenzio della notte è squarciato da scalpiccio di cavalli, urla, parole sacrileghe. I briganti… Ci hanno sorpresi, fuggono con i nostri tesori destinati a Roma. Non c’è tempo da perdere, lo leggo nello sguardo del fedele amico Imerio e, senza dire una sola parola, saliamo sui cavalli e ci lanciamo all’inseguimento. Com’è difficile correre nella notte quando non una sola luce ti guida, quando i percorsi sono pieni di insidie, dove ogni masso, ogni ramo, ogni corso d’acqua rappresenta un ostacolo. Non ci diamo per vinti, la folle corsa prosegue tra boschi e paludi, ma alla fine riusciamo a braccare il gruppo di briganti, là dove le acque stagnanti cedono il posto al terreno impervio, dove le viscere della terra si riversano continuamente in superficie sotto forma di copiose sorgenti. Le risate sfacciate e le bestemmie di quella masnada sembrano confondersi con lo scroscio cantilenante del fiume. Ormai siamo faccia a faccia. Ma non farò come loro, non userò la violenza. In nome di Nostro Signore chiederò di restituire il maltolto. La risata inopportuna di uno di loro, che chiamano “il Rosso” mi colpisce come uno schiaffo, graffianti sono le sue parole: “E tu saresti disposto a perdere la testa per il tuo Signore?” Una forza dentro di me mi fa rispondere senza esitazioni: “Sì, sono pronto anche a perdere la testa”. Un attimo che sembra eterno, mentre la mia ancor breve vita mi scorre davanti agli occhi, vedo un pugnale conficcato con violenza nel petto del mio fedele amico Imerio. Non riesco nemmeno a gridare il suo nome, qualcosa di freddo e allo stesso tempo bruciante mi colpisce al collo, vacillo, l’acqua del fiume mi accoglie, sono avvolto da un velo rosso sangue… Il mio sangue? Poi il silenzio. Ganna, intorno al 1095
Attone, Ingizone, Arderico, tre canonici provenienti da Milano giungono nell’inospitale fondovalle, invaso da brughiere e paludi. Hanno un compito importante, scritto nero su bianco in una bolla arcivescovile vergata da Arnolfo III: fondare una comunità monastica intorno alla chiesa di San Michele di Ganna. Per gli abitanti del posto riveste un grande significato: tempo addietro quel luogo è stato testimone di un fatto prodigioso. Le voci parlano di un pellegrino di nome Gemolo, nipote di un vescovo del Nord Europa, decapitato selvaggiamente da un gruppo di briganti nel tentativo di salvare i beni che lo zio intendeva portare come offerta a Roma. Il giovane scelse di morire martire, in nome di Nostro Signore e il Signore operò il miracolo: Gemolo raccolse la testa e, in sella al suo cavallo, andò incontro allo zio vescovo. L’incontro avvenne ai piedi del monte Mondonico, che sovrasta Ganna. Giusto il tempo di una benedizione, e Gemolo spirò, ma ricevette degna sepoltura in quel luogo. Da quel momento i prodigi si moltiplicarono, tanto che il vescovo decise di costruire sul luogo della sepoltura di Gemolo una piccola chiesa dedicata a San Michele…Ganna, 2016
Sul ciglio della strada che conduce a Ganna, in una piccola radura tra i boschi, si trova una piccola cappella, munita di portico sorretto da due massicce colonne poligonali. Sul retro, una nicchia ospita un mosaico di recente fattura, che raffigura un uomo a cavallo nell’atto di ricollocarsi la testa, appena mozzata, sul collo. È qui il primo ricordo tangibile del martirio di San Gemolo e sembra che il fatto sanguinoso si sia compiuto proprio nei paraggi, dove ora si trova la sorgente dei sassi rossi. Ancora oggi, tra le acque cristalline, rilucono sassi screziati di un vivo colore rosso. Si racconta infatti che sia il sangue di Gemolo, che con il suo martirio rese sacre queste acque. Gemolo è il santo dell’acqua: a ribadire il legame con questo elemento fu la scoperta, durante il XIV secolo, di una nuova sorgente proprio mentre si gettavano le fondamenta della cappellina a lui dedicata. Ancora oggi, accostando l’orecchio alle finestrelle, è possibile udire il gorgoglio incessante dell’acqua che scaturisce da sotto l’altare. Pare inoltre che in passato, durante i periodi di siccità, la gente di Ganna si recasse in pellegrinaggio alla sorgente per raccogliere di quest’acqua e spargerla sui campi, invocando la pioggia.Oltre la cappella trecentesca e la sorgente dei sassi rossi, ha inizio il percorso del sangue, la strada che Gemolo intraprese con il capo mozzato per andare incontro alla zio vescovo, e che porta direttamente alla badia.Sono passati più di mille anni dalla prima menzione del luogo di culto, nella bolla arcivescovile di Arnolfo III. Con il tempo la paupercula ecclesia si è ingrandita, fino a trasformarsi in complesso monastico e ad assumere l’aspetto attuale. Il periodo di splendore si protrasse per tutto il Medioevo. Ganna entrò nell’orbita dell’abbazia di Fruttuaria ed estese i suoi beni e la sua influenza in buona parte del varesotto e in alcune aree del Canton Ticino. Il declino iniziò alla fine del Quattrocento, con la trasformazione della badia in commenda. Nel 1556, i monaci furono allontanati, tutti i beni ceduti all’Ospedale maggiore di Milano e la badia fu affidata al clero secolare.La Valganna deve molto alla presenza della comunità benedettina: furono infatti i monaci a modellare il paesaggio, a bonificare le paludi e a rendere queste terre più vivibili. La badia ancora oggi si specchia nelle acque del rio Margorabbia, con i suoi volumi degni di una fortezza. Pare infatti che in origine il complesso fosse fortificato e munito di torri, delle quali resta traccia nel campanile, un manufatto di ottima fattura, datato intorno al 1150. Varcando il portone di ingresso ci si rende subito conto della particolare organizzazione degli spazi: una cinta più ampia a cinque lati racchiude a sua volta gli edifici claustrali veri e propri, che si sviluppano intorno a un chiostro, anch’esso pentagonale. Tante ipotesi sono nate intorno alla struttura più unica che rara del chiostro, senza tralasciare questioni esoteriche legate al numero cinque e alla figura del pentacolo. Tuttavia sembra che la motivazione fosse di tipo pratico: era necessario seguire la conformazione irregolare del terreno. Infatti l’aspetto odierno del chiostro è il risultato di due interventi avvenuti in epoche diverse: i tre lati adiacenti la chiesa mostrano eleganti arcate gotiche, sorrette da pilastri a sezione esagonale in mattoni, riconducibili al XIV secolo. I due restanti lati, caratterizzati da archi a tutto sesto e robusti pilastri, sono un’aggiunta posteriore, probabilmente del XVII secolo, forse un rifacimento a seguito di un crollo. La chiesa abbaziale è la parte che più di tutte ha subito alterazioni. I vari interventi l’hanno portata all’odierna struttura a tre navate scandite da pilastri. A prima vista potrebbe sembrare una chiesa anche un po' troppo anonima, di sicuro pesantemente rimaneggiata, ma subito si è come attratti magneticamente dalla prima campata della navata destra. Infatti qui si trovano le testimonianze storicamente più degne di nota. Sulla parete di fondo, campeggia una bella Madonna della Misericordia quattrocentesca, abbigliata con vesti candide ornate di ricami dorati. Due angeli le posano la corona sul capo e reggono cartigli nastriformi sui quali, in caratteri gotici, sono scritte formule che inneggiano alla regalità di Maria. Fedele alla tradizionale iconografia, la vergine copre con il suo manto una schiera di devoti e fedeli: uomini alla sua destra, donne alla sua sinistra. Nonostante l’affresco sia mutilo per l’apertura di una nicchia, appare subito evidente la buona conservazione (non fu mai coperto dallo scialbo) e la qualità della fattura, leggibile sui volti dei personaggi e sui dettagli delle vesti. Sulla volta della campata, parzialmente leggibile a causa dello scialbo, è raffigurato l’orifiamma contenente il trigramma ihs, testimonianza della grande eco che ebbero nel varesotto le prediche di San Bernardino da Siena. Accompagnano l’orifiamma alcune figure clipeate: nei tondi più grandi si trovano i dottori della chiesa (riconoscibile San Girolamo) e nei tondi più piccoli probabilmente gli evangelisti. Altre figure ornano i piedritti e l’intradosso dell’arco che porta alla seconda campata: si tratta di quattro sante, quasi a grandezza naturale. Quattro figure enigmatiche, che con lo sguardo sembrano seguire il visitatore, realizzate tutte dalla stessa mano, probabilmente all’inizio del XVI secolo. Sui piedritti, l’una di fronte all’altra, si trovano le martiri Agata e Apollonia (la figura più compromessa e parzialmente asportata): reggono lo strumento del martirio, lo stesso per entrambe, la tenaglia. L’intradosso invece vede raffigurate altre due sante, martirizzate per decapitazione: Santa Giuliana, che schiaccia il demonio sotto i piedi, e una rara Santa Dorotea, che reca una cesta colma di fiori. Quattro emblemi del femminile, quattro guardiane a custodire questa intima grotta sorvegliata dalla Madonna della Misericordia. Sante che hanno versato il sangue con il loro martirio, quasi a voler sottolineare questo legame di sangue con San Gemolo. San Gemolo, il santo delle acque telluriche, da sempre legate al principio femminile. Un legame che sembra rafforzarsi se si considerano i giorni dedicati ai santi qui ricordati: San Gemolo 4 febbraio, Sant’Agata 5 febbraio, Santa Dorotea 6 febbraio, Sant’Apollonia 9 febbraio e Santa Giuliana 16 febbraio. Coincidenza, casualità? Purtroppo non abbiamo gli elementi sufficienti per comprovarlo…Forse la chiesa ha tanto altro da svelare, celato sotto gli intonachi di epoca tardorinascimentale. Come, per esempio, il bel volto del Cristo Re, nella seconda campata della navata sinistra, risalente al Trecento. Nella terza e ultima campata verso l’altare gli spazi sembrano chiudersi, farsi ancora più raccolti. Da alcuni rilievi eseguiti svariati decenni fa, è stato ipotizzato che questo potesse essere il perimetro della chiesa primitiva, San Michele, poi ampliata nel corso del XII secolo e ricononsacrata a San Gemolo. Secoli dopo, il cardinale Federico Borromeo dovette occuparsi per primo della ricognizione delle spoglie di San Gemolo. Infatti, nel 1612, durante l’arretramento della navata e lo smantellamento del vecchio altare, furono rinvenute numerose ossa umane, alcune delle quali recavano un cartiglio con il nome del martire cui erano appartenute. Furono trovati anche i resti di tre diversi individui, privi di nome, che il cardinale ordinò di murare in un’urna di pietra accanto all’altare. Tuttavia, l’autenticazione delle reliquie arrivò solo nel 1937 per volere del cardinale Schuster. Era la prima volta che si impiegavano metodi scientifici per riconoscere le ossa di un martire. Dall’esame emerse che due dei tre individui avevano oltre 60 anni, mentre il terzo poteva avere un’età di 25-28 anni e le lesioni erano compatibili con quanto narrato dalla tradizione. Era lui, San Gemolo? La risposta della commissione fu affermativa, il corpo fu ricomposto e riportato solennemente a Ganna nell’agosto 1941. Da allora riposa sotto l’altare maggiore e veglia, come da secoli, sulla sua badia e su Ganna.Un patrono unico e speciale per un luogo ricco di suggestioni, che merita una visita, anche solo per l’eccezionale contesto ambientale e paesaggistico. Un luogo che, ci si augura, non smetterà mai di stupire.
Claudia Migliari
Nota: questo testo non ha alcuna pretesa scientifica, ma vuole porsi come una semplice narrazione di un luogo, da sempre legato a eventi al confine tra storia e leggenda. I luoghi di Gemolo ne sono la testimonianza tangibile. Sull’antica strada che dalla basilica di San Vittore di Arcisate porta a Ganna, tra il monte Crocino e il monte Monarco, si trova la località detta Passo del Vescovo, dove si narra si accampò il vescovo zio di Gemolo durante quella sanguinosa notte.
Foto di Claudia Migliari e Luca Borgia
Bibliografia essenzialeComolli Benigno, La Badia di San Gemolo in Ganna, in «Rivista della Società Storica Varesina», Varese 1960Comolli Benigno, San Gemolo nella tradizione millenaria, in «La Badia di S. Gemolo e la Valganna», Varese 1966Comolli Roberto, Zanzi Luigi (a cura di), Tracce di storia dell’Abbazia di S. Gemolo in Valganna, Nicolini Editore, Gavirate 1999Dallaj Arnalda, Orazione e pittura tra propaganda e devozione al tempo di Sisto IV: il caso della Madonna della Misercordia di Ganna, in «Revue Mabillon», 1997FrecchiamiMario, La Cappella di San Gemolo ed il suo restauro, in «Rivista della Società Storica Varesina», Varese 1960
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