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Il sapore amaro degli acini d’uva

Creato il 23 agosto 2011 da Csabbat
Il sapore amaro degli acini d’uvaSenza guardarsi indietro, senza rimorsi inconfessati né peccati da farsi perdonare, un milione di piccole sfere monocromatiche risalivano rapidissime la lunghezza del cristallo, assumendo insieme una forma inconsistente di elegante sensualità. Bolle, bollicine vive e desiderose di liberare la loro vacua personalità, esplodevano a contatto con l’aria mentre il sinuoso bicchiere si avvicinava cauto alle labbra carnose e dai profili disegnati.
Il sapore pungente e alcolico le inebriava gradualmente il palato mentre la mano asciutta inclinava con tre dita lo stelo del flute. La sua pelle era chiara e di una morbidezza serica, lontana dagli standard di qualsiasi altra quarantenne presente nella sala. Le unghie lunghe e squadrate, smussate agli angoli, sembravano riflettere l’amaranto del rossetto.
I suoi occhi neri fissavano un punto oltre l’orizzonte, mesti davanti a un oracolo senza risposte, mentre il sangue assumeva il sapore amaro degli acini d’uva. Pensava alle rondini – le sentiva garrire - e a quanta illusoria libertà ci fosse nel loro volteggiare senza pareti, prigioniere come tutti dello scorrere del tempo e inermi davanti alle indecisioni del vento.
In quel momento una leggera folata le accarezzò i capelli ricci e bruni, come una mano invisibile e sicura di sé, e lei inspirò visibilmente appagata. Il profumo del balsamo rendeva l’aria serena e aggottava la stanza dai suoi lontani ricordi, sempre vivi nei pensieri di chi, come lei, ne restava puntualmente impigliato al rintocco di ogni nuovo anno.
Al collo una perla, un unico monile sufficiente a regalarle classe e sobrietà, le scendeva dal collo, pendula oltre l’incavo alla base della gola, a qualche centimetro dalla crespatura alta della camicetta di chiffon. Le spalle tornite e i seni marmorei si intravedevano sotto lo scuro del tessuto così come i fianchi sottili, rassodati da massaggi e diete misurate.
Sebbene sedesse su uno sgabello la sua posizione era disinvolta e rilassata. La gonna era color pece e lasciava vivo il ginocchio; le gambe erano accavallate e sulla punta del piede destro si teneva in equilibrio un sandalo nero open-toe con il tacco alto. La schiena era leggermente piegata in avanti e, dopo ogni sorso distratto, il braccio si appoggiava lentamente al bancone mentre la mano sinistra pendeva soffice dal ginocchio accavallato.
Tutt’intorno, gli smoking si prodigavano in sontuosi inchini e i corsetti dalle curve prosperose rispondevano di rimando agli sguardi ammiccanti; mentre abiti in lamé e georgette lasciavano intravedere colli lunghi e diamantati, stretti tra le braccia dei frac. Sul bancone accanto alla donna, una bottiglia semivuota di Perrier Jouet Belle Epoque del '95 era coricata su un lato del cestello colmo di ghiaccio. Dietro di lei, coppe spumeggianti di sfarzo e cinismo dialogavano tra loro ostentando un’insana umanità.
I muri erano alti e austeri, tappezzati di dipinti dell’Ottocento italiano, da Giovanni Fattori a Signorini ad Ardengo Soffici. Dal soffitto pendeva un enorme lampadario di cristallo boemo, forgiato e levigato a mano, decorato con alcune candele bagnate d’oro. In fondo alla sala, due lampade in stile barocco, dal lungo gambo color ottone antico e rifinite di fiorellini bianchi, illuminavano l’enorme camino in marmo. Sei tappeti orientali, di misure differenti, si avvicendavano sul pavimento creando delle zone franche e interdette al passaggio di scarpe senza lucido e al centro del salone, pieno di abiti sconosciuti, c’era l’imponente bancone in mogano addobbato a festa con numerosi biglietti di buon compleanno.
La donna sollevò il flute e l’ultima goccia di Perrier si staccò esitante dal bordo del cristallo umettandole la punta della lingua. Si alzò dallo sgabello, lasciando che la gonna riprendesse con naturalezza la sua forma originaria, e si avviò con passo lento e cadenzato verso il fondo della sala. Gli ospiti che via via invadevano la sua traiettoria le cedevano il passo, accennando inchini abbottonati, mentre lei annuiva cordiale e alzava di rimando il bicchiere vuoto a coloro che le dedicavano un silenzioso prosit.
Raggiunti gli scalini davanti alla grande porta-finestra, si fermò un momento per assaporare l’aria meno rarefatta e godere della fresca temperatura di quella stellata sera d’agosto. Salì i tre gradini e raggiunse la balconata con il parapetto di marmo intagliato, ammirando le colline coltivate a ulivi, un tempo protette dai maestosi torrioni. Il consueto brusio, per un attimo assopito dal passaggio della donna, ridiede prima vita alla sala, ritrovando la propria accordatura sulle note del pianoforte, per poi cadere nuovamente nel silenzio. Il bicchiere vuoto toccò il pavimento, il cristallo si frantumò in centinaia di piccoli specchi e, dai volti indistinti, si spensero all’unisono i cordiali sorrisi di gesso. Gli occhi fissarono un punto oltre l’orizzonte, mesti davanti a un oracolo senza risposte, mentre il sangue assumeva il sapore amaro degli acini d’uva.

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