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Il segreto di Marta (seconda parte)

Da Cultura Salentina

di Vespina Fortuna

Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (Acquatinta)

Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (Acquatinta)

 

Un giorno, approfittando del fatto che le streghe s’erano allontanate, mi trovai un nuovo nascondiglio, era un sasso scavato, molto più accostato al masso dal dove saltavano in cielo. Mi sembrò il posto perfetto per vederle e sentirle senza essere vista. Verso il tramonto, le vidi ritornare e accendere il fuoco. La madre tirò fuori da una cesta di foglie intrecciate, mele, funghi e erbe aromatiche. Dietro di lei, dopo un po’ arrivarono tutte le sette figlie che portavano un capretto legato per le zampe a un lungo ramo di mandorlo. Lo scuoiarono, lo riempirono di frutta, lo cosparsero di erbe e miele e lo infilarono nello spiedo, sul braciere acceso, fatto di sassi. Il profumo si sparse per tutta la montagna, poggiandosi sulle foglie e sui fiori e s’infilò anche nel mio masso cavo, facendomi salire in bocca una saliva dolce di desiderio. Dopo tutti quei giorni a digiuno, il profumo di carne mi fece girare la testa e caddi a terra come un fico maturo.

Mi svegliarono fitte dolorose alla pancia, proprio qui, sotto l’ombelico. Le formiche e gli insetti mi camminavano su e giù per le cosce, la schiena e il collo. La testa mi prudeva, ma ero troppo vicina alle streghe e non potevo scacciarli senza fare rumore. Allora, come un gatto selvatico, mi rintanai nel primo nascondiglio che trovai e lì, piano piano me ne liberai a furia di strofinarmi con le mani, maledicendole solo col pensiero.”

A ripensare a quel profumino di capretto arrostito, a Marta venne in mente che s’era già fatta l’ora di pranzo. Entrò in casa, prese due pucce con le olive, le divise a metà, mise dentro ognuna una grossa fetta di ricotta e tornò a sedersi sulla soglia. Offrì una delle due porzioni alla bambina e insieme a lei cominciò a sbocconcellarle. Non avendo quasi più denti, doveva masticare lentamente, ma aveva troppa voglia di raccontare quella storia che si era tenuta dentro per tanti anni, allora decise di mangiare solo quel poco che le sarebbe bastato per finire il racconto, tenendo il resto per dopo. La bimba, invece, coi denti forti e sani, distratta dalla misteriosa vicenda di nonna Matta, ingoiò tutto, un boccone dopo l’altro.

“Dov’ero rimasta? Ah, sì! Stavo maledicendo le formiche e i ragnetti che più impauriti di me cercavano di scappare correndomi su e giù per le gambe e i capelli.

Mi sporsi poco poco. Era il 24 giugno, il giorno di San Giovanni. Me lo ricordo come fosse ora, perché io a San Giovanni l’ho sempre tenuto nel cuore e pure se non mi ricordo quando sono nati i miei genitori e i miei fratelli, quella data non me la posso scordare. Era ancora buio, ma le vesti delle streghe di mussolina bianca brillavano alla luce della luna e potei vederle bene salire sul masso e sollevarsi in aria. Quando alzai gli occhi, vidi che non erano sole. Altre streghe come loro giravano in cerchio, sospese fra una nuvola e un pezzo di cielo nero e cantavano filastrocche sconosciute con voci di angeli. Da dentro la tana non potevo vederle bene tutte, allora uscii e mi sedetti a guardarle seduta per terra fra i sassi e i cardi, ma non li sentivo sotto il sedere, ero troppo incantata. Per tutto il tempo restai a guardarle, immobile, con la bocca aperta e gli occhi spalancati. Cercavo di respirare piano e certe volte trattenevo perfino il respiro, perché avevo paura di essere scoperta. Quelle, belle o brutte, sempre streghe erano! E che ne sapevo come l’avrebbero presa se si fossero accorte che qualcuno le spiava? Certe tenevano i capelli sciolti che ballavano in aria come le onde del mare, altre, invece, avevano trecce lunghissime che sembravano battere il ritmo delle filastrocche. Erano sei bionde, dieci more e una coi capelli rossi come i ravanelli dell’orto. Tutte, però, scure o chiare, avevano la pelle così bianca che sembravano fatte di luna. A piedi nudi giravano in tondo, ogni tanto si lasciavano le mani, facevano un giro su se stesse in aria e applaudivano alla musica di un tamburello che non si vedeva, ma c’era, ne sono sicura, perché io la sentivo. Per terra, una foglia camminava da sola o forse sopra un topolino o una talpa e sui rami i gufi e le civette giravano la testa di qua e di là, cercando intorno qualcosa con gli occhi gialli e rotondi come il rosso delle uova di Cicirinella. A un certo punto sentii un rumore di passi e di rami spezzati, girai la testa anch’io e vidi che stava arrivando lu Nanni Orcu, il marito della strega. Era grande e grosso, più alto degli alberi d’ulivo, coi capelli lucenti come la criniera dei cavalli neri e due mani enormi. Dentro la tana mi sarei sentita al sicuro, ma lì in mezzo al nulla, tremavo di paura e a ogni passo saltavo. Peggio per me – pensai maledicendomi – chi me l’ha fatto fare a venire fino qua? Ma già sapevo la risposta: Angelino me l’aveva fatto fare e quella pancia che mi faceva vedere le stelle dal dolore. Era l’alba. La strega lasciò le figlie e le compagne a cantare e ballare e scese leggera, come quando fai volare una piuma e quella se ne ricade piano piano. Si diresse verso il masso a forma di letto camminando come un fantasma, con la veste bianca e una corona di foglie d’ulivo intrecciata sul capo, guardando di fronte a sé. Pensai che fosse scesa per raggiungere il marito, invece quella nemmeno l’aveva visto perché si appoggiò sul letto di sasso e si mise a dormire. All’improvviso sentii altri passi nel chiarore delle prime luci e un nuovo scricchiolio di rami e di foglie secche frantumate. Un giovanotto bello, biondo e vestito di stracci mi passò a pochi metri, ma il suo sguardo era catturato dalla fata dormiente e, per mia fortuna, nemmeno mi guardò. La scosse per svegliarla e lei gli puntò gli occhi nei suoi. C’era un gran silenzio tutt’intorno, le voci delle fate nel cielo erano più lontane, forse per non disturbare il sonno della strega.

Lui, ricambiando il suo sguardo senza timore le disse: “Voglio la chioccia e i sette pulcini d’oro. Voglio la tua occhiatura, il tuo tesoro.”

Lei lo guardò e invece di arrabbiarsi gli rispose: “Tre domande ti farò e tre risposte devi darmi, se sicuro le darai e guardandomi negli occhi, senza pause né paura, ti darò la mia occhiatura.Attenzione a non sbagliare e intorno non guardare, basta un solo falso passo e di te, ne faccio un sasso.”

Lu Nanni Orco, intanto, si era fermato e li guardava da dietro le fronde di un albero, immobile e senza parlare, ma io lo sentivo ansimare di rabbia e gelosia. Restai impietrita, senza riuscire a muovere nemmeno gli occhi per guardare gli uccellini che volavano via, spaventati dal vibrare dei rami che aveva fatto scuotere lui, solo appoggiandosi all’ulivo.

Il giovanotto restò fermo e deciso a prendersi il tesoro, con lo sguardo fisso negli occhi della strega e il mento alzato e fiero.

“Che cosa brilla e profuma, azzurro e bianco di spuma?” “ Lu mare!”

“Che cosa colora ardente, e in cielo, giallo risplende?” “ Lu sole!”

“Che cosa profuma di mare e caldo o freddo ti fa rifiatare?” “Lu jentu! Il vento!”

Aveva risposto bene a tutte le domande, senza indugiare, così come gli era stato imposto dalla strega. Adesso gli spettava la ricompensa. La donna si sdraiò e gli disse: “Hai vinto avrai me e le mie sette figlie.”Si strinsero in un abbraccio e si scambiarono un lungo bacio, poi si distesero vicini guardando verso il cielo.

All’improvviso sentii come il grugnito di dieci scrofe arrabbiate. Lu Nanni Orcu riprese a camminare dirigendosi verso i due amanti. I suoi passi erano sempre più vicini, quando mi passò accanto, tremai credendo che mi avrebbe schiacciato sotto i suoi stivali. Aveva un passo talmente pesante che tutta la terra tremava, i sassi rotolavano e gli alberi scotevano le fronde lasciando piovere migliaia di olive acerbe tutte insieme.

Arrivò al giaciglio in un lampo, prese il giovanotto per il collo e lo scagliò lontano, come fosse stato un sassolino.

L’ultima cosa che mi ricordo di quella mattina è un urlo straziante, poi ci fu il buio.

Quando mi risvegliai, mi accorsi che qualcuno mi aveva portato in un posto sconosciuto e brullo, fatto di pietre e pochi alberi secchi. Povera me – pensai – Adesso come faccio a ritornare a casa? Provai ad alzarmi ma i dolori di pancia mi fecero ricadere a terra. Una vecchia, sentendo che mi ero svegliata, si avvicinò. Ebbi paura e mi raggomitolai, ma lei mi disse parole sconosciute e dolci e mi accarezzò la fronte. Allora sentii che potevo fidarmi, le misi le mani fra le sue, fresche e antiche. Le dissi che morivo dal dolore. Lei fece sì col capo e mi passò la mano sulla pancia, massaggiando in tondo. Poi scosse la testa e si allontanò. Sudavo e tremavo, mi contorcevo e mordevo l’orlo del vestito. Quando tornò, portava una brocca e una zucca vuota. Mi aiutò a bere e mi tenne il capo sulle sue gambe, continuando a carezzarmi e massaggiarmi il ventre. Non lo so quanto stetti in quella sofferenza, ma a un certo punto mi sembrò di sentire come un nodo che si sciogliesse, sentii umido fra le cosce e il calore tornarmi in tutto il corpo. La vecchia mi poggiò la testa sul suo scialle attorcigliato e mi scoprì le gambe, gettandomi le vesti sopra il viso. La feci fare e quando ebbe finito mi scoprì, mi accarezzò e pianse. Allora mi sollevai pian piano, tenendomi a lei, come potevo e lo vidi. Era un bambino bello come il sole e anche di più. Era il mio bambino. Era bello davvero! Bello come mai ho visto il bello. Più bello di San Giovanni dipinto sul muro. Dormiva, su una pelle di pecora nera, nudo e bianco. Dovetti stringermi alla donna perché mi girava la testa. Restai a guardarlo, come si guarda un bambino appena nato, per la prima volta, cercando nel taglio degli occhi o nelle fattezze del naso qualche rassomiglianza. Ma lui non somigliava a nessuno, era tanto bello che non so nemmeno dire come fosse fatto. Sembrava di vetro lucente, coi capelli neri, la bocca fatta coi petali di viola e il corpo di marmo scolpito. Profumava di rosmarino, di fiori di cappero e di mare. Meno di San Giovanni aveva solo il vestito, ma come lui era immobile. Chiesi se potessi toccarlo, come se non fosse mio. La donna me lo porse. Era freddo e duro come una pietra. Era morto. Glielo riconsegnai e mi addormentai piangendo. Nel sonno mi sembrò di sentire la voce della vecchia che cantava una strana filastrocca che diceva: “Serpentello, serpentello gira intorno al tuo bastone, tieni stretto nelle spire il ricordo e la razione”.

Quando mi svegliai, mi ritrovai da sola con le sue parole in testa e un laccio stretto intorno al braccio. Mi alzai a fatica, avevo la testa confusa e non mi ricordavo né chi fossi né perché stessi lì. Ero in mezzo a una campagna sconosciuta. Provai a girare nella radura, per cercare un sentiero che mi portasse da qualche parte, ma più camminavo, più mi ritrovavo al punto di partenza. Ero arrivata in un luogo incantato, dove si gira, si gira, ma non si prosegue mai. Non lo so neanche adesso, dove stavo. So solo che, a un certo punto, come d’incanto, alzai la testa e mi sembrò di vedere una fonte. Una forza misteriosa iniziò a spingermi. Avevo i piedi sanguinanti e piagati, ma mi sembrava di camminare sull’acqua. Poco più avanti scorsi del fumo. Avevo fame, credei di poter trovare qualcosa da mettere sotto i denti, ma quando mi accostai, sentii un odore di erbe, dolciastro e sgradevole. Allora montai su un sasso, mi sporsi nell’incavo di una specie di pentolone di pietra e vidi una mistura rossastra, simile a sanguinaccio, sulla superficie galleggiavano peli, zampe di gallina e creste di gallo. Nonostante la fame, ebbi paura che fosse una pozione magica e fuggii, turandomi il naso per non respirare quel maleficio.

Corri e corri, arrivai vicino al fiume, non sapevo quale fosse la direzione giusta, dove dovessi andare, né il sentiero per arrivarci. Volevo tornare a casa ma ogni volta mi trovavo in un posto sconosciuto ed ero costretta a riprendere il vecchio sentiero e cambiare direzione. Provai pure a tagliare per la campagna ma rovi alti e pungenti mi obbligarono a rinunciare. E allora andavo e andavo e ancora e ancora, fin quando mi ritrovai sulla strada di Serravecchia al fondo di Michele, quello che spreme le olive. Io lo riconobbi subito, ma lui no. Mi guardava con gli occhi smarriti, impaurito e tremante, come fossi un fantasma. Sapevo di essere sporca e orribile, ma non me ne importava. Di niente m’importava più, di niente e di nessuno. A vederlo, però mi ricordai di Giuggianello, di casa, di mia madre e di mio padre. Allora proseguii fino qua.

Rimasi per tanto tempo senza parlare. Un nodo mi stringeva la gola senza riuscire a scendere né risalire in forma di lacrime. Un groppo grosso e duro come una mandorla piena di dolore e amara come il fiele. Non mi uscivano proprio le parole da quella gola gonfia e ingombra, ma se pure avessi potuto parlare, io non avrei avuto proprio niente da dire. Da quando mi risvegliai, quel giorno in quella valle sconosciuta, non mi ricordai più niente e, fino a oggi, era rimasto un segreto anche per me.”

La bimba, che tutto si era aspettata quel giorno, tranne sentirsi raccontare il segreto di nonna Matta, la continuava a guardare con la bocca aperta piena di molliche di pane, gli occhi sgranati e le orecchie gonfie di parole. Marta si sollevò da terra, entrò in casa e ne uscì con un tovagliolo e un bicchiere d’acqua. La pulì dalle briciole di pane e di formaggio, le porse il bicchiere, aspettò che si dissetasse e, alla fine, col tovagliolo e il bicchiere vuoto in mano, rientrò a casa.

Solo allora si ricordò che quel giorno compiva settantotto anni. Se li sentì arrivare in testa tutti assieme e dovette sedersi su una sedia per non cadere sotto il loro peso. Guardò fuori. La ragazzina si allontanava guardando il cielo, riparandosi gli occhi con la mano.

Marta finì la ricotta e il pezzo di puccia rimasti, restando seduta sulla sedia, poggiata al tavolo, per tutto il giorno.

Il mattino seguente, quattro bambine si affacciarono al suo uscio.

“Nonna Matta, nonna Matta, racconti anche a noi il tuo segreto?”

Marta non c’era. Allora la cercarono nel pollaio, nella vigna, nell’orto e fra gli ulivi, ma non la trovarono. Un pastorello disse di averla vista, verso sera, dirigersi a Quattromacine, a passo lento e malsicuro. Camminava e si fermava a riprendere fiato. Non aveva nemmeno una lampada o un bastone, andava sull’orlo del fosso tenendosi ai tronchi degli alberi e ai cespugli di ginestra. Lui l’aveva chiamata tre volte, ma lei non l’aveva sentito o forse non si era voluta voltare. L’aveva seguita con lo sguardo fin quando non l’aveva vista diventare un puntino lontano e poi sparire.


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