di Iannozzi Giuseppe
Il seme della follia
EDITORI E PRECARIATO: il fatto, senza troppi giri di parole, è che anche “il precariato” è stato ingoiato dalla grande bocca affamata dell’editoria – con risultati che non lasciano né l’amaro in bocca né un sorriso sulle labbra. “Tutti giù per terra” di Giuseppe Culicchia (Garzanti) ha fotografato una generazione, quella degli anni Novanta e del mondo del lavoro. “Pausa caffè” di Giorgio Falco (Sironi editore) ha fotografato quella generazione post-duemila. Due ottimi libri, necessari. A mio avviso questi i due titoli più rappresentativi e fotografici, capaci di fare una buona fotografia sul mondo del lavoro, sulla condizione del precario, del precariato. Poi sono sopravvenuti i cloni, troppi, troppissimi: voci stonate, inutili, presuntuose, che del precariato sanno niente, che non l’hanno vissuto sulla loro pelle e che eppure ne fanno narrazione, o perlomeno ci tentano cercando di convincerci a spendere i pochi euri – che (non) abbiamo in tasca per loro che hanno scritto in fretta e furia.
Mi sa che ci sono molti scrittori precari in giro, che si rigirano i pollici per mancanza di idee, e così raccontano il precariato, di chi soldi per sbarcare il lunario niente o prossimi là, allo zero. Insomma, sfruttano la triste condizione sociale di chi è un precario per “santificarlo” e poi “venderlo” in libreria, un po’ come si dice fece Giuda con Gesù per trenta denari. Perlopiù libri che valgono poco, nulla, che fanno felici gli Editori – ma solo se hanno successo di vendite.
Obbe’, finirà anche ‘sta moda di scrivere del precariato per sfruttare la condizione di chi precario. E sarà sostituita da un’altra. C’è di buono che le mode, effimere, sono precarie e si dimenticano in breve tempo così come gli autori. Cioè: i libri non sono come le minigonne, che fanno sempre la loro bella figura addosso a una bella donna con due gambe mozzafiato. In effetti, non mi preoccupa questa moda, di scrittori improvvisati, precari senza idee, che sfruttano il precariato: non valgono, tranne i due libri di cui ho già detto, Giuseppe Culicchia con “Tutti giù per terra” e Giorgio Falco “Pausa caffè”. Non ha alcun valore invece “Un anno di corsa” di Giovanni Accardo: un libro sostanzialmente di fantasia, ma che non ci dice nulla sulla condizione del precario.
La realtà è la benvenuta nella narrativa così come nella letteratura: problema è che si stanno sfornando romanzi incentrati sul precariato ma inventati di sana pianta o quasi.
Si parla del precariato senza conoscerlo davvero se non per sentito dire, senza averlo vissuto sulla pelle.
E però, come ho già detto, almeno due buoni libri sul precariato ci sono stati consegnati: ed è più di quanto osassi sperare.
E però: ci hanno lobotomizzati. Ci siamo lasciati lobotomizzare dai giornali dalla tv e da mille altre stronzate che non stanno né in cielo né in terra.
Ma a noi ci sta bene che Silvio Muccino s’improvvisi scrittore, ci sta bene Andrea Pezzi che fa il paroliere dal suo pulpito su RaiDue, ci sta pure bene Fabio Volo (più canne che uomo!) che fa l’attore e lo scribacchino, ci sta bene tutto di tutto: comincio a rivalutare la Luciana Litizzetto, perlomeno lei mi fa ridere tra un “col cavolo” e un milione e mezzo di passaggi su RaiTre. Meglio ridere che piangere, alla fin dei conti, se tanto tutto va a rotoli per colpa nostra che stiamo dietro all’INUTILE e al SUPERFLUO.
Provate ad immaginare un mondo migliore, provate per un attimo ad immaginarvi slegati dall’oppressione del lavoro. Non ci riuscite: la nostra è una società basata sul ‘lavoro’, anche se sarebbe più corretto dire che è fondata sui lavoratori precari. Non era molti anni fa: Nanni Balestrini era in piazza con romanzi forti, “Vogliamo tutto”, “Gli invisibili”, “L’editore”. Ci ricorda Aldo Nove nella presentazione a “La grande rivolta”: “Prendete la Storia. Il suo perpetuarsi attraverso orrori e soprusi. Toglietene l’agiografia dei vincitori. Quello che resta è l’altro volto del presente.” Il ‘volto del presente’ ce lo descrive ‘oggi’ Giorgio Falco attraverso “Pausa caffè”. Siamo di fronte a una silloge di racconti: l’autore, con penna impietosa quanto amara, ci descrive il microcosmo allargato e smisurato del precariato, ma anche la spersonalizzazione dell’individuo, dell’uomo che viene privato della sua quiddità di ‘essere’ per ‘non essere’ fra le pulegge tritatutto della ‘mercificata tratta dei lavoratori’. Cantava John Lennon in Working Class Hero: “Dopo averti terrorizzato per venti assurdi anni/ Si aspettano che tu scelga una carriera/ Quando in realtà sei così pieno di paura che non puoi ingranare/ Devi diventare un eroe proletario” In “Pausa caffè” c’è la paura dell’uomo messo di fronte al terribile meccanismo del mercato del lavoro, che prende risorse umane e le traduce in numeri, in business, in co.co.co. C’è la consapevolezza che diventare un eroe del proletariato è impresa impossibile, perché il proletariato non esiste più: oggi si è tutti co.co.co. e il lavoratore non è necessariamente un proletario, perché se sei un precario non metti su famiglia né fai figli se sei furbo. Il co.co.co. è uno che viene detto capace di svolgere (un) qualsiasi lavoro; però può essere sostituito in ogni momento per la dura legge della democrazia. La voce di Giorgio Falco è epica con un piglio donchisciottesco, ma anche poetica e disincantata come nello “Spoon River” di Edgar Lee Masters: in “Pausa caffè” c’è tutta una rassegna di voci, di precari, di ambizioni normali congelate nel tempo, di speranze gridate e poi arrestate dentro a un amaro caffè, c’è tutto un mondo di libertà deliberatamente negate, tramortite, annientate dal veleno dei padroni che fanno della vita dei lavoratori un niente, che, dall’oggi al domani, può essere tranquillamente spazzato via. Ecco che “Pausa Caffè” diventa “un tavolo anatomico sul quale sta distesa, in tutta la sua nudità, la vita dei lavoratori e delle lavoratrici precari, temporanei, interinali, a termine, a contratto”: Giorgio Falco opera un’attenta autopsia sociale dentro e intorno al cadavere ancora vivo che è la società del lavoro. Un narrare che coinvolge perché, bene o male, dentro alla società ci siamo tutti, e tutti siamo apocalittici, integrati o interinali.
Difficile dire se siamo di fronte a un capitolo narrativo o piuttosto nelle budella della letteratura: ma sicuramente siamo a contatto, pelle a pelle, con quel giorno – tremendo nell’incertezza che offre di sé stesso – che è l’oggi, l’attualità. E di questi tempi non è poco, è molto più di quanto ci si possa aspettare da un autore e dalla sua opera: la verità senza la maschera dell’ipocrisia. Buoni motivi dunque per meditare su “Pausa Caffè”, per dar credito a Giorgio Falco, autore che già molto ha fatto per svelare le molteplici verità intorno alla tratta dei lavoratori, per mettere a nudo cosa significa vivere la condizione d’essere un contratto a termine.
LO ZAR NON E’ MORTO – una lieve polemica: “Lo Zar non è morto” (Sironi editore) è un gran bel libro, ed è incredibile la compattezza stilistica raggiunta dai Dieci (Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli, Antonio Beltramelli, Lucio d’Ambra, Alessandro De Stefani, Fausto M. Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare G. Viola, Luciano Zuccoli) che possono stare pure sul gozzo per le loro idee politiche… E però bisogna riconoscergli che sapevano scrivere, e che perlomeno “Lo Zar non è morto” è un libro-avventura-fumettone di lusso che fa divertire e tanto, con una Oceania World che già incarna il meglio del più famoso Indiana Jones. “Lo Zar non è morto” è avventura divertente, romanzo scritto molto bene tra l’altro; sì, in definitiva, lo si potrebbe dire un fumettone di lusso, quindi fantapolitica di lusso e ucronia di lusso, ma anche qualcosa di più: narrativa che è già quasi Letteratura ma divertente. Ce ne fossero di più di libri così, come lo Zar, da poter riscoprire. Ce ne fossero. E ci fosse oggi qualcuno capace di narrare come sapevano fare i Dieci… ma sto deviando su altro binario…
I libri si dovrebbero criticare solo una volta letti. E se si legge una recensione che parla di un libro, allora sarebbe bene averlo letto quel dato libro per poter dire della recensione in maniera critica. Altrimenti è solo aria fritta il parlare.
L’accostamento Superman-Zar io non lo vedo troppo marcato o fuori luogo nella recensione a firma di Renato Barilli sul n. 221, maggio 2006, della rivista “L’immaginazione” (Piero Manni Editore). Barilli difatti scrive: “…imprese odierne dei vari James Bond, Terminator, Superman…” Si può dire dunque che guarda al Superman di oggi, che è assai diverso da quello – diciamo -“classico”. Anzi, il Superman di oggi non ha niente in comune con il Superman degli anni d’oro, dei suoi, che iniziarono nell’ormai lontano 1938. Oggi è assai più vicino a un manga: un ibrido fra gli X-Men, Ken il Guerriero e Goku. Un po’ tutti i supereroi hanno fatto questa fine, quella di esser globalizzati, per diventare, sì, alla fin dei conti dei “terminator”, o degli uomini d’acciaio, d’acciaio sì, ma lo dico in maniera spregiativa. Così supereroi da esser ridicoli: non nego che gli X-Men possano piacere e fare botteghino, ma sono decisamente “disumanizzati” anche per crederli degli eroi parto della fantasia umana. Ecco perché non trovo che Barilli abbia detto male: se Superman, Spiderman, James Bond, X-Men, Wonder Woman, ecc. ecc. sono diventati paccottiglia così, allora molto meglio un romanzo “fumettone” come “Lo Zar non è morto”. Perché se ci pensate bene, ogni capitolo è un po’ come la sceneggiatura di un albo ma senza le figure.
Tra le due guerre mondiali, c’erano anche altri eroi oltre a Superman, sia made in USA che made in Italy: basterebbe citare il Corrierino, i suoi personaggi che non erano degli stinchi di santo, piuttosto un esempio di propaganda fascista, un invito a “credere, obbedire, combattere”. Ne parla anche Umberto Eco in un libro straordinario, della memoria, “La misteriosa fiamma della Regina Loana”, che consiglio vivamente a chi non avesse ancora avuto la fortuna di incontrarlo nelle sue letture. Superman – e un po’ tutti i supereroi – si sono rifatti il look e anche le idee, da un po’ di anni a questa parte. Ma lo sapete che Peter Parker si è svelato e ha perso l’anonimato? Vi cade un mito, o che?
Ma cos’è un fumettone? Un’avventura, qualcosa di divertente. Un fumetto che è molto molto lungo. Non è difficile da capire. O forse sì!
Forse è anche questo il segreto per cui questo romanzo dei Dieci – di un collettivo alla fin dei conti – è superiore a romanzi moderni scritti da altri collettivi storici o tirati su in fretta e furia.
I Dieci, sì, sono dei fascisti. Alcuni di loro furono di più, dei “fascistoni”, altri morirono prima di poter esser troppo fascisti. Però: è un problema vostro se non avete la voglia, o il tempo o che altro, di essere aperti senza pregiudizi, soprattutto perché il romanzo è un’ucronia, fantapolitica; e il messaggio politico che c’è – e c’è – è risibile, da farsi quattro risate. Questo romanzo è scritto bene, molto bene: da dieci persone che hanno lavorato come fossero una. Null’altro. Un’avventura da leggere per il piacere di leggere una storia che non fa acqua, la cui trama è robusta; ma anche per il piacere d’incontrare una storia scritta in bello stile.
In libreria ci sono tanti librettini, troppi, thriller e romanzi d’avventure, erotici e d’amore. E perlopiù sono scritti malissimo, con i piedi: inizi la lettura e dopo dieci pagine, oltre alla banalità inseguita e perseguita dagli autori, non puoi fare a meno di farti venire uno due tre conati di vomito per la sciatteria del linguaggio adottato. Libri che si rifanno a dei cliché e che (gli autori) nemmeno li sanno usare in maniera coerente. La grammatica poi esiste ma solo come un “che” di superfluo per questi romanzetti – che sono comunque tradotti in tutta fretta.
E però: non posso partire, perlomeno io, dal presupposto che un dato autore è (stato) fascista ragion per cui lo snobbo. Sarebbe un po’ come giudicare un libro dalla copertina. Leggo, se ho tempo da investire, poi semmai darò il mio giudizio sul libro, sia esso (fintamente) di Destra o di Sinistra.
C’è che a volte bisogna pure intrattenersi con un intrattenimento e non con altro, non con un pacchetto erudito o uno di sigarette; e a ben guardare, Céline è molto più pericoloso di tutti i Dieci messi assieme, perlomeno quel Louis-Ferdinand Céline che è già al di là di “Morte a credito” e “Viaggio al termine della notte”. Céline esprime una ideologia nazista e razzista, con ferocia inaudita: “Ci si accanisce - dichiarò Céline - a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e ariani, e contemporaneamente, del resto, di ebrei… Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine”. E’ del 1938 “L’école des cadavres”, pamphlet tra i più feroci mai apparsi. Carlo Bo spiega, a proposito di Céline, delle sue idee: “…negli anni Trenta, Céline vantava (forse più di ogni altro) un bel curriculum di antisemita, ma dopo il ‘40 andò oltre imboccando un razzismo scientifico, quale a suo avviso neppure i nazisti osavano sperare… Non si può non continuare a chiederci come mai uno scrittore di quella forza e di quella novità si sia lasciato trascinare da uno spirito più che polemico, predicatore di morte e di rovine”. Altro che balle. Ma ciò non ce lo rende meno grande come scrittore Céline. I moralisti che oggi condannano senza possibilità di appello il Gruppo dei Dieci – senza neanche aver letto il romanzo -, forse dovrebbero studiare meglio la storia, e la letteratura. Nessuno mette in dubbio che Céline sia superiore ai Dieci, ma credo che non si possa mettere in dubbio che le idee espresse da Céline sono assai più ferali di quelle contenute in un romanzo d’avventure qual è “Lo Zar non è morto”, idee che sono tanto ingenue che uno ci ghigna su senza porsi troppi problemi.
“Lo Zar non è morto” de Il gruppo dei Dieci è anche scrittura collettiva, che forse sarebbe bene conoscere, ma è molto altro ancora: non trovo che l’intrattenimento faccia del male, purché assunto in maniera equilibrata. Trovo invece inutili i tanti “thrillerini” spacciati per capolavori di letteratura militante e che fanno proprio cagare, e che nonostante ciò vengono stampati pubblicati e distribuiti in tutte le salse, sia di autori italiani che d’oltreoceano. Qualche volta un thriller buono, ma non sono mai quelli oltremodo pubblicizzati e superdistribuiti.