Il (solito) assaggio:
Stringimi. Per dirlo ai miei muscoli, alle mie ossa. Reggi il mio corpo strappato alla rabbia e alla violenza. Anche se puzzo di gas, di terra bruciata e un po’ di sudore, accidenti, non ci voleva, non oggi, ma tu: stringimi. E dimmelo, ancora, senza aprire bocca, che mi porterai via di qui. Io, fra le tue braccia, precipito in un sonno che si appesantisce, mentre cerco (ma la cerco davvero?) una via d’uscita dalla nebbia che mi toglie i sensi. Spero, mezzamorta quale sono, che il tempo ci ripensi e si faccia lento: una preghiera. Si smarrisca, anche lui, per una volta, fra queste strade che abbiamo scelto per nasconderci dai candelotti fumogeni e dalle pallottole, dai manganelli e gli scarponi. Dai poliziotti. Dal potere. Stringimi e non deludermi. Hai fibre d’acciaio, le sento: non lasciarmi ora, non per terra, che sa di sangue e vomito. Ecco, tirami un po’ su, verso di te, fammi sentire il cuore che batte, i polmoni che urlano cercando l’aria che si fa rara. Io mi lascio cadere un altro po’ in questo mondo fatto di silenzio e di nausea che ci sparano addosso. Ci vogliono, tutti, appoggiati ai muri o piegati in due, in ginocchio, la bocca sull’asfalto: a vomitare. Una generazione che vomita. Così ci vogliono.
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