Assil.
In queste ore sto pensando a Gaza e ad Assil. È viva e ha 12 anni. Quando l'avevo incontrata ne aveva due. E stava morendo per le ustioni causate non da una bomba, ma dall'acqua bollente: incidente domestico nella sua casa – si fa per dire – in Cisgiordania. Quel giorno avevo spento la telecamera: avrei fatto l'impossibile per salvarle la vita. Era stata ricoverata nell'ospedale palestinese Al Makassed, Gerusalemme est. Peggiorava ogni giorno. Diceva a sua madre, che la guardava dentro una stanza sporca: “smettila di piangermi addosso”.Avevo fatto telefonate importanti anche in Svizzera, per capire se qualcuno si interessava. Zero. “Chieda a quello, chiami quella…”. Oggi c'è un'associazione, e molte persone che aiutano.
Ero seduto di fronte al professore palestinese, primario del reparto dell'Al Makassed dove era “ricoverata” Assil: non capiva perché un occidentale se la prendesse tanto per la vita di quella bambina. “Ne muoiono tanti di palestinesi”, mi aveva detto. La faccio breve: quando ormai tutti avevano detto di no, ecco che richiama un medico arabo israeliano dalla Galilea, contattato due giorni prima. “È fatta, portatela ad Haifa”. Portarla è una parola. Per organizzare un'ambulanza (palestinese) con medico (palestinese) e attrezzature di cure intensive (palestinesi) a bordo è stata un'avventura di ore. Permessi israeliani, posti di blocco israeliani. Eppure: Assil è arrivata ad Haifa. L'ha salvata il Rambam Hospital. La vita gliel'ha ridata una squadra di medici ebrei e musulmani: hanno lavorato insieme. Ancora oggi è ad Haifa che Assil si reca per i controlli.
Sto pensando ad Assil è ho Gaza davanti agli occhi. Questi morti e Assil salvata. Non c'entra, un'azione non può cancellarne un'altra, un'azione non può perdonare una carneficina. Penso anche che l'intervento dei medici di Haifa non potrà mai farmi dimenticare l'indifferenza del professore palestinese di Gerusalemme. Lo rende soltanto più colpevole, e per sempre. Non potrà nemmeno farmi dimenticare gli altri ospedali israeliani, quelli che avevano detto di no.
Gaza, di nuovo. Quando tutti si metteranno a trattare e a decidere, forse verrà inventato un ammorbidimento delle condizioni di cui Gaza è vittima, qualche risultato ci sarà. Lo avranno ottenuto i morti, i civili. So però che non lo dirà nessuno, che i discorsi saranno sempre gli stessi e le bandiere sventolate sempre le stesse. Ci fosse, a Gaza, un solo monumento dedicato ai martiri, a quelli che hanno pagato e stanno pagando con la vita, donne, uomini, bambini. Con tutto il cemento che circola a Gaza, ne trovino un po' per farne una lapide. Ce ne fosse uno di quelli che oggi non vedi in circolazione perché stanno tutti sotto il loro cemento, protetti, loro sì, uno che prenda un microfono e dica “Grazie”. Perché se a Gaza qualcosa cambierà, sarà grazie ai morti, alla povera gente finita sotto le bombe israeliane e poi sotto terra. Sarà grazie al sacrificio di queste persone.
I filopalestinesi professionisti non mi sono mai stati simpatici. Si svegliano soltanto quando c'è sangue. Fanno bene, meglio che continuare a dormire. Ce ne fosse uno, però, anche tra di loro, che quando a Gaza tutto sarà finito, quando a Gaza forse avranno ottenuto qualche concessione, un'idea, perché no, di libertà, tenga gli occhi aperti: per verificare che sia una libertà vera, non quella che va bene ai vincitori ufficiali, autori di una vittoria divina o meno che sia, che nel frattempo avranno lasciato i loro bunker e si saranno messi a camminare sulle macerie. Ce ne fosse uno fra i filopalestinesi che lo dica: che se a Gaza troveranno un po' di libertà, dovrà essere libertà vera, libertà per tutti. Anche di pensiero, di espressione, e di tante altre cose ancora. Ce ne fosse uno che lo dica, a chi a Gaza comanda, anche urlando se serve e ponendo condizioni, che la libertà vera concessa alla popolazione è il solo modo per dare dignità ai morti causati dal macello israeliano. Stare con Gaza significa questo. Il resto è autopromozione, roba da falsi amici. Il pensiero militante è diverso.