Le divinità del desiderio, Eros e Afrodite, sono legate ambedue all’occhio, che sembra essere nel corpo il loro luogo di elezione.
“Eros, Eros, attraverso gli occhi tu instilli il desiderio”
in Ippolito di Euripide.
Dunque il desiderio è localizzato nell’occhio e si muove nel gioco degli sguardi. Anche in Empedocle troviamo l’occhio “sede privilegiata dell’amore”, “capolavoro di Afrodite demiurga”.
Tale natura per così dire visiva dell’eros fa sì che il desiderio sia suscitato dalla bellezza, che insieme al colore è una sottocategoria della luce. Inseparabile dunque dalle forme con cui si confonde nella misura in cui esse sono desiderabili, eros al tempo stesso è ad esse esterno, poiché le forme hanno un’esistenza indipendente da lui. Ma tutto ciò è ambiguo. Di qui sorge la domanda: è la visione che determina il desiderio oppure il desiderio che la crea nel suo potere fascinante? Cioè a quale punto si costituisce lo sguardo?
Nel coro dell’Orestea troviamo attribuito ad Elena il seguente attributo: “ommàton bèlos” (soave strale dell’occhio). Ma qual è il punto di partenza e quello d’arrivo? Essi nello sguardo sembrano inestricabilmente uniti: lo strale, Elena, ferisce gli occhi di coloro che la guardano o viene scoccato dai suoi occhi? Nell’uno e nell’altro caso l’oggetto della contemplazione attacca come un aggressore, partecipa attivamente alla visione e al tempo stesso al desiderio. Cioè lo sguardo emana tanto dall’oggetto contemplato che dall’occhio che lo contempla: la reciprocità fa sì che non ci sia né organo, né oggetto o che ciascuno dei due sia ambivalente. La vista sembra il prodotto di un’interazione dei due.
Il fenomeno è accentuato dal fatto che lo sguardo rivolto sull’oggetto bello si erotizza irresistibilmente. L’aggressività che Elena manifesta nel semplice esercizio degli sguardi è ragione diretta del suo splendore: è in qualità di gemma, (àgalma), e fiore d’amore (èrotos ànthos), che essa è “strale” e “punge l’anima”.
Questa specie di tirannia esercitata sullo sguardo dalla bellezza, induce i Greci a pensarla come l’organo stesso della vista: quasi a dire che la bellezza è l’occhio.
Così Sofocle trasferisce da Deianira, per la quale si battono due pretendenti, al suo “occhio” l’aggettivo “disputato” (amphineìketon òmma nymphas); dietro questa ipallage c’è senza dubbio un modo di indicare la bellezza stessa della fanciulla, piuttosto che il suo atteggiamento di spettatrice del combattimento. Alcuni versi prima, a Deianira era stata attribuita la qualifica ambigua di euòpis, “dai begli occhi” o “bella a vedersi”: l’occhio si presenta dunque al tempo stesso come sede della bellezza, o addirittura del suo aspetto complessivo. E come organo che permette agli altri di percepirla nell’oggetto bello.
Aderendo allo sguardo come a una matrice e confondendosi con esso, l’eros condivide tutte le ambiguità della visione. Come l’occhio si distingue a mala pena dall’oggetto contemplato, così il desiderio mira agli oggetti belli ed è al tempo stesso loro costitutivo. È il caso di Elena, fiore di desiderio.
All’incertezza sul senso della traiettoria dell’èros è legata l’assenza iniziale, nella tragedia, delle categorie dell’amante e dell’amato. Alla reversibilità del rapporto visivo si aggiunge quella del rapporto erotico. Ciò risulta dal fatto che colui che chiameremmo l’amato è spesso presentato come un aggressore, mentre l’amante è l’aggredito.
Il caso di Io nel Prometeo è indicativo: completamente vittima della volontà divina, Io è priva degli aspetti micidiali che potevano giustificare l’assimilazione di Elena ad uno strale. Ora le sue visioni le dicono:
“Zeus è acceso dallo strale del desiderio che proviene da te”.
Come certe immagini mescolavano l’organo e l’oggetto della vista, così il desiderio, presente nell’oscura congiunzione dei termini che collega, non conosce né soggetto, né oggetto: la rappresentazione fisica che i Greci si fanno dell’èros pare debitrice di ciò che si produce nel sistema ottico.
Tale ambivalenza dei partners erotici in un rapporto in cui entrambi sono attivi e passivi ad un tempo, costituisce una prospettiva angosciosa per l’umanità tragica, come è continuamente narrato dai miti.