Consacrare, dissacrare, massacrare: l’utopia del teatro o il suo cadavere putrefatto?
Sui sentieri di fuoco tracciati da Artaud, l’esplosione della parola e il suo ritorno all’ordine barocco, in una cristallizzata decadenza. La macchina attoriale assembla i pezzi di carne imputridita del testo letterario per farne l’irrappresentabile Frankenstein della scrittura scenica.
Per finirla con i capolavori, bisogna farsi capolavori. Per finirla con il Giudizio di Dio, bisogna apparire alla Madonna, intrattenerla, distoglierla da una concezione immacolata.
Non sguardo interiore, ma d’interiora o deteriore o d’interiora deteriorate. L’esplosione di tutti i bubboni di peste, hic et nunc.
Totò Merùmeni, innocuo e inetto, epigono di un Amleto già segnato dal pensiero debole di Laforgue, consunto dalla tisi. L’estraniazione rimbaudiana, l’io è un altro, viene schiacciata dal peso dell’eredità culturale: l’io non vuole più essere io, figurarsi altro! L’io non vuole più essere, punto, ammesso che lo sia mai stato.
Disfare la forma, dar forma all’amorfo, al soffio, all’inorganico. E qui che il tradimento si consuma: nessuna fuga balinese o messicana, bisogna accettare il martirio fino in fondo, farsi inghiottire dalla palude occidentale.
E ancora un altro tradimento: l’incenerita foresta di simboli borghese non è spazio per erigere un nuovo Pantheon archetipale, ma luogo deputato all’adorazione del nulla.
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