Titolo: Il sergente nella neve
Autore: Mario Rigoni Stern
Anno: 1953 (Prima Edizione Originale)
I militari non sono quelli con i Ray-Ban a specchio sulla Jeep, quelli che scendono nei locali e con l'aria da signori della morte brancano le ragazze in minigonna poggiando il palmo aperto sulle natiche. O almeno, non sono solo quelli.
I militari sono quelli che pattugliano le strade serbando nel portafogli la foto della mamma e della sorella a casa.
Sono quelli che si tengono nel palmo della mano l'immagine del figlio piccolo che ride con la finestra in mezzo ai denti che pian piano si richiuderà.
Sono quelli che la notte si toccano sotto alle coperte ricordando la fidanzata quella volta che rantolava e non bastano mostrine da generale per dare una soddisfazione più grande.
Sono pure quelli che hanno mollato la placida caserma per rischiare il culo pur di guadagnare l'indennità con la quale si pagheranno la macchina nuova o le prime rate del mutuo dell'appartamento.
Mario Rigoni Stern è stato uno di questi: un soldato spedito nelle grinfie del Generale Inverno della Russia durante la Seconda Guerra Mondiale. Per la Madre Patria.
Ha scritto questa cronaca dell'Armata Italiana in Russia, la rinomata Armir, durante la prigionia nei campi di concentramento tedeschi sul finire della guerra. Prigioniero di quelli che erano stati amici e sodali di tante battaglie. Poi dicono di fidarsi degli amici.
"Il sergente nella neve" spiega nel dettaglio quello che ognuno ha saputo da anziani parenti memori di quel fiasco clamoroso. Lo zio che raccontava del ritorno a piedi scalzi con frammenti di calze attaccati ancora alla pelle, ricolmo di pidocchi fin dentro le mutande quasi a compensare il calo di peso, rideva nel raccontare del lavaggio nella vasca da bagno con la moglie che spargeva varechina sulla cute lercia e crostosa.
Rigoni Stern ha raccontato delle marce nella neve con le piaghe che nemmeno fanno più male per l'anestesia dal gelo. Dei gatti che unici superstiti tra tutti gli animali morti per cibarsi o per la guerra, che vengono guardati col languore allo stomaco, magari insieme alla polenta cucinata nel pentolone dove sono stati bolliti i vestiti per ripulirli dai parassiti. Dei muli che fanno fatica insieme agli uomini a scavare trincee o trasportare bagagli o feriti. Altro che Jeep e occhiali da sole.
E poi ha riportato i discorsi in dialetto di gente di ogni dove che ha mescolato la propria lingua ad accenti del Nord, del Sud, e di ogni luogo dove c'era una casa ad aspettarli.
Giuanin chiede sempre al suo superiore: "Sergentmagiù, ghe riverem a baita?" e ci spalanca l'anima per la pena, quel desiderio di casa sua, la baita che abbiamo conosciuto anche noi che abbiamo fatto gli emigranti sulle montagne. Vorremmo che fosse ritornato a baita, a casa dove c'era la fidanzata ad aspettarlo. Vorremmo.
Non c'è odio in nessuna riga del libro: i russi di fronte vivono come gli italiani. Ascoltano a vicenda le loro parole anche senza capirsi, tanto sono vicini. Potrebbero sputarsi dalle loro trincee, ma si sfottono. E si rispettano.
Nella prima parte del libro viene descritta la quotidianità dei soldati nell'avamposto sulla riva del fiume Don, con le loro speranze, nostalgie, sogni. E voglia di ritornare a baita.
Quando i russi iniziano ad attuare l'accerchiamento degli invasori italiani arriva l'ordine della ritirata, con i reparti a smobilitare un po' per volta coprendosi le spalle.
Nella seconda parte c'è la ritirata attraverso la steppa sovietica e le vicende cruente che coinvolgono i militari italiani braccati, affamati, stanchi, ora con i tedeschi, ora con i russi.
Il reparto del Sergente Rigoni Mario fu GioBatta è costituito da circa venti soldati, ma alla fine non saranno più venti.
"Cammina, cammina, ogni passo che facciamo è uno di meno che dovremo fare per arrivare a baita."
All'epilogo della tragedia i nostri soldati saranno sformati, trasfigurati, irriconoscibili anche a sé stessi.
"Qualcuno mi mette in mano un rasoio di sicurezza e un piccolo specchio. Guardo queste cose nelle mie mani e poi mi guardo nello specchio. E questo sarei io: Rigoni Mario di GioBatta, n. 15454 di matricola, sergente maggiore del 6° reggimento alpini, battaglione Vestone."
Si riuscirà a venirne a capo nonostante i morti, il vuoto nell'orbita dell'occhio del soldato, la gamba di legno dell'altro. Reduci di guerra.
"Il tenente che aveva preso il comando della compagnia mi chiese il nome di quelli che meritavano di essere decorati. Diedi i nomi di Antonelli, di Artico, di Cenci, di Moscioni, di Menegolo, di Giuanin, di Tardivel, e di qualche altro."
Le guerre di oggi fanno più schifo di quella del Sergente Rigoni anche se fanno meno morti.
Chissà cosa ne direbbe oggi lo scrittore autodidatta, impiegato poi al catasto, di questi morti per motivi da niente, di cui rimangono le foto su Facebook anche dopo mesi che sono saltati in aria sulle mine con i loro carri.
Chissà cosa direbbe, adesso che è ritornato a baita.