Il brano che vi presento oggi è tratto dal libro Molto forte, incredibilmente vicino, (pag. 236-242), edito in Italia da Guanda nel 2005. Chi ha sorriso e si è commosso sulle pagine di Ogni cosa è illuminata, deve assolutamente leggere questo romanzo dello scrittore ebreo statunitense Jonathan Safran Foer. Si tratta, ancora una volta, di un libro strano e avvincente – dico io – ambizioso, pirotecnico, enigmatico, come asserisce Salman Rushdie nella quarta di copertina. Credetemi, il mio giudizio non vuole essere una marchetta in favore della casa editrice Guanda, ma è solo un parere sincero e spassionato che proviene da un lettore comune qual io mi reputo e che, non appena si trova tra le mani qualcosa di geniale, non vede l’ora di comunicarlo in giro. Il libro mi è tanto piaciuto che penso di regalarlo in occasione di compleanni o festività ad amici che, come me, non stravedono per scrittori come Moccia, Baricco, Vitali, eccetera che, invece, vanno per la maggiore in Italia.
Il sesto distretto è una specie di favola adulta che un padre racconta al figlio di otto anni per farlo addormentare. Tutto da godere il dialogo serrato che avviene tra i due e decisamente particolare l’impaginazione del testo che ho riportato fedelmente. La favola è un po’ lunghetta, ma vale la pena leggerla fino in fondo per capire il rapporto maschio che esisteva tra padre e figlio. Il padre morirà durante il crollo delle torri gemelle. Ma non vi dico altro.
Buon proseguimento.
Nicola
Il sesto distretto
«Una volta, ma tanto tempo fa, New York aveva un sesto distretto amministrativo.» «Che cos’è un distretto amministrativo?» «Questa io la chiamo un’interruzione.» «Vero, ma se non so che cos’è un distretto amministrativo per me la storia non ha senso.» «È una specie di quartiere. O un insieme di quartieri.» «Ma se dici che un tempo c’era un sesto distretto, quali sarebbero gli altri cinque?» «Ovviamente Manhattan; e poi Brooklyn, il Queens, Staten Island e il Bronx.» «Ma io sono mai stato in qualcun altro dei cinque distretti?» «Ci risiamo.» «Voglio solo sapere questa cosa.» «Una volta, qualche anno fa, siamo andati allo zoo del Bronx. Non ti ricordi?» «No.» «Siamo anche andati a Brooklyn, all’orto botanico, per vedere le rose.» «E nel Queens, ci sono stato?» «Non credo.» «Sono stato a Staten Island?» «No.» «Ma esisteva veramente un sesto distretto?» «Stavo cercando di raccontartelo.» «Non interromperò più. Te lo prometto.»
«Be’, non ne troverai notizia sui libri di storia, perché non c’è niente – a parte qualche prova indiziaria nel Central Park – che dimostri che sia mai esistito. Questo rende molto facile escluderne l’esistenza. Ma anche se la maggioranza della gente dirà che non ha tempo né motivo di credere nel sesto distretto, anzi non ci crede, userà comunque il verbo ‘credere’.
«Anche il sesto distretto era un’isola, separata da Manhattan da una sottile striscia d’acqua, il cui punto più stretto – guarda un po’ – corrispondeva al record mondiale di salto in lungo, per cui precisamente un’unica persona sulla terra poteva andare da Manhattan al sesto distretto senza finire a mollo. In occasione del salto annuale davano una gran festa. Stendevano da un’isola all’altra spaghetti speciali con festoni di bagel, giocavano a bowling con samosa e baguette, lanciavano coriandoli di insalata greca. I bambini di New York catturavano lucciole in barattoli di vetro che facevano galleggiate nell’acqua fra un distretto e l’altro. In breve gli insetti morivano asfissiati…» «Come, asfissiati?» «Soffocati.» «Ma perché non facevano dei buchi nei coperchi?» «Perché negli ultimi minuti di vita le lucciole sbattevano freneticamente le ali. Era tutto calcolato, quando l’atleta saltava il fiume era tutto un palpitio di luce.» «Figo.»
«All’ora stabilita il saltatore iniziava la rincorsa dall’East River. Attraversava tutta Manhattan in larghezza, mentre i newyorkesi lo incoraggiavano dai lati della strada, dalle finestre degli appartamenti e degli uffici, e dai rami degli alberi. Seconda Avenue, Terza Avenue, Lexington, Park e Madison, Quinta Avenue, Columbus, Amsterdam, Broadway, Settima, Ottava, Nona, Decima Avenue… E al momento del salto i newyorkesi lo incitavano dalle rive di Manhattan e del sesto distretto, festeggiando l’atleta e festeggiandosi l’un l’altro. Nei pochi attimi in cui il saltatore era in aria, ogni newyorkese si sentiva capace di volare.
«O meglio, ‘di restare sospeso’. Perché la vera cosa emozionante, nel salto, non era tanto che l’atleta passasse da un distretto all’altro, ma che restasse così a lungo fra di essi.» «È vero.»
«Una volta – tanti, tanti anni fa – il saltatore sfiorò il pelo dell’acqua con la punta dell’alluce provocando una minuscola onda. La gente trattenne il fiato, mentre l’onda tornava indietro dal sesto distretto verso Manhattan, facendo sbatacchiare i barattoli fra loro come campane a vento.
«’Qui mi sa che hai ciccato la partenza!’ gridò sopra l’acqua un consigliere del distretto di Manhattan.
«L’atleta scosse la testa, più per la confusione che per l’imbarazzo.
«’Avevi il vento contrario’ suggerì un consigliere del sesto distretto, porgendo al saltatore un panno per asciugarsi il piede.
«Il saltatore scosse la testa.
«’Avrà mangiato troppo a pranzo’ disse uno spettatore a un altro spettatore.
«’O forse non è più quello di un tempo’ disse un altro che aveva portato i suoi figli ad assistere all’impresa.
«’Ci scommetto che non era convinto’ fece un altro. ‘È impossibile saltare cosi lungo senza dare anche l’anima.’
«’No’ ribatté l’atleta a tutte quelle ipotesi. ‘Non ha ragione nessuno di voi. Il mio era un buon salto.’
«La rivelazione…» «Come, rivelazione?» «La scoperta.» «Ah, sì.» «…viaggiò fra gli spettatori come l’ondina provocata dall’alluce, e quando il sindaco di New York lo dichiarò ad alta voce, tutti sospirando ammisero: ‘Il sesto distretto si muove’.» «Si muoveva?»
«Un millimetro per volta, il sesto distretto si staccava da New York. Un anno il saltatore si bagnò completamente il piede e dopo qualche anno lo stinco, e dopo tanti, tanti anni – così tanti, che nessuno si ricordava più cosa fosse una gran festa spensierata – il saltatore dovette allungare le braccia per acchiappare il sesto distretto in completa estensione, e infine non riuscì più nemmeno a toccarlo. Gli otto ponti fra Manhattan e il sesto distretto si allungarono sempre di più e alla fine crollarono nell’acqua, uno dopo l’altro. Le gallerie erano ormai troppo strette perché potesse passarvi dentro qualcosa.
«I cavi del telefono e della luce si spezzarono costringendo gli abitanti del sesto distretto a tornare a tecnologie antiquate, generalmente simili a giochi da bambini: per riscaldare i pasti d’asporto usavano le lenti di ingrandimento; piegavano i documenti importanti in aeroplani di carta che si lanciavano da una finestra all’altra degli uffici; e quelle lucciole nei barattoli di vetro, che prima usavano solo per far scena durante il festival del salto in lungo, finirono per tenerle in ogni stanza di tutte le case al posto delle luci artificiali.
«Poi chiamarono a fare una perizia gli ingegneri che curavano la Torre di Pisa… Ti ricordi dov’è?» «In Italia!» «Esatto. Li chiamarono per valutare la situazione.
«Quelli dissero: ‘Vuole allontanarsi’.
«’Be’, ma voi che ne dite?’ chiese il sindaco di New York.
«Gli ingegneri risposero: ‘Non c’è niente da dire’.
«Naturalmente cercarono di salvarlo. Anche se forse ‘salvare’ non è la parola giusta, dato che il distretto sembrava deciso ad allontanarsi. Forse, la parola giusta è ‘trattenerlo’. Assicurarono delle catene alle rive delle isole per ormeggiarlo, ma in breve, uno alla volta, gli anelli si spezzarono. Gettarono fondamenta di cemento lungo il perimetro del sesto distretto, ma invano. Le briglie non funzionarono, e nemmeno le calamite, e neanche le preghiere.
«I giovani amici dovettero dar sempre più filo ai loro telefoni di corde e barattoli allungati da un’isola all’altra, come quando si fanno volare gli aquiloni sempre più in alto.
«’Non ti sento quasi più’ disse la bambina dalla sua cameretta a Manhattan strizzando gli occhi nel binocolo di suo padre per individuare la finestra del suo amico.
«’Se necessario, griderò’ le rispose l’amico dalla sua cameretta nel sesto distretto, puntando verso la casa della bambina il cannocchiale che gli avevano regalato per il suo ultimo compleanno.
«Il filo fra di loro diventò incredibilmente lungo, così lungo che dovettero aggiungervi tante altre funi legate insieme: il filo dello yo-yo di lui, la cordicella della bambola parlante di lei, lo spago con cui il padre di lui teneva chiuso il suo diario, il filo cerato che aveva trattenuto le perle attorno al collo della nonna di lei e, lontano dal pavimento, lo spago che aveva tenuto separata la trapunta da bambino del prozio di lui da un mucchio di stracci. Contenuti in tutto quello che condividevano c’erano lo yo-yo, la bambola, il diario, la collana e la trapunta. Avevano sempre più cose da dirsi, e sempre meno filo.
«Il bambino chiese alla bambina di dire nel barattolo: ‘Ti amo’, senza fornirle altre spiegazioni.
«E lei non gliene chiese, né disse ‘che sciocchezza’, o ‘siamo troppo giovani per l’amore’; e non suggerì neanche alla lontana che diceva ‘ti amo’ perché glielo aveva chiesto lui. Invece, gli rispose: ‘Ti amo’. Il messaggio viaggiò per lo yo-yo, la bambola, il diario, la collana, la trapunta, il filo da bucato, il regalo di compleanno, l’arpa, la bustina da tè, la racchetta da tennis, l’orlo della gonna che un giorno lui avrebbe dovuto toglierle…» «Che schifo!» «Il bambino coprì il suo barattolo con un coperchio, lo staccò dalla corda e collocò l’amore della bambina per lui su un ripiano nel proprio armadio. Ovviamente, non poté mai aprire il barattolo perché altrimenti avrebbe perso il contenuto. Gli bastava sapere che era lì.
«Alcuni, come i genitori del bambino, non volevano andar via dal sesto distretto. Alcuni dissero: ‘E perché mai? È il resto del mondo che si sta muovendo. Il nostro distretto è fermo. Che se ne vadano loro, da Manhattan’. Come dimostrare che sbagliavano? E chi voleva dimostrarlo?» «Io no.» «Nemmeno io. Ma per la maggior parte degli abitanti del sesto distretto non fu un rifiuto di credere all’evidenza, e neanche una questione di cocciutaggine, di principio o di coraggio. È solo che non volevano andare. La loro vita gli piaceva e non volevano cambiarla. Quindi si allontanarono sull’acqua un millimetro alla volta.
«Tutto questo ci porta al Central Park. Central Park non era dov’è ora.» «Ma tu vuoi dire solo nella storia, vero?»
«Un tempo si trovava proprio nel mezzo del sesto distretto. Era la sua gioia, il suo cuore. Ma quando fu chiaro che il distretto stava allontanandosi per sempre e non poteva essere salvato né trattenuto, New York fece un referendum e decise di mantenere il parco.» «Che cos’è un referendum?» «Una votazione.» «E poi?» «Fu un voto unanime. Anche il più testardo degli abitanti del sesto distretto ammise che bisognava fare così.
«Piantarono degli enormi ganci nei terreni più a est e gli abitanti di New York tirarono il parco – lo fecero scivolare, come un tappeto su un pavimento – dal sesto distretto a Manhattan.
«Durante lo spostamento i bambini ebbero il permesso di sdraiarsi sul parco. Fu considerata una concessione, anche se nessuno sapeva perché fosse necessaria una concessione, e perché si dovesse farla proprio ai bambini. Quella sera il cielo di New York fu illuminato dal più grande spettacolo di fuochi d’artificio della storia, e la Filarmonica suonò dando tutta se stessa.
«I bambini di New York si sdraiarono sulla schiena, corpo contro corpo, occupando ogni centimetro quadrato del parco come se fosse stato progettato per loro e per quel momento. I fuochi d’artificio frizzavano e svanivano nell’aria appena prima di toccare terra e i bambini, un centimetro e un secondo per volta, furono fatti scivolare a Manhattan e nell’età adulta. Quando il parco trovò la sua sede attuale i bambini si erano addormentati tutti, ma proprio tutti, e il parco era un mosaico dei loro sogni. Alcuni gridavano, alcuni sorridevano senza saperlo, altri erano fermi e silenziosi.»
«Papà?» «Eh?» «Io lo so che il sesto distretto non è mai esistito. Voglio dire, oggettivamente.» «Tu sei ottimista o pessimista?» «Non mi ricordo. Quale dei due?» «Sai cosa vogliono dire queste parole?» «No.» «Un ottimista è uno che ha speranze, che è positivo. Un pessimista è molto negativo e cinico.» «Sono ottimista.» «Be’, questo è un bene, perché non esistono prove inconfutabili. Non c’è niente che possa convincere qualcuno che non vuole essere convinto. Però ci sono indizi in quantità, a cui si può appoggiare chi vuol crederci.» «Per esempio?» «Per esempio, le particolarissime formazioni fossili del Central Park. O il pH discordante del laghetto. O anche il fatto che nello zoo ci sono alcuni serbatoi corrispondenti ai fori lasciati dai giganteschi ganci che trasferirono il parco da un distretto all’altro.» «Acci.»
«C’è un albero – appena ventiquattro passi a est rispetto all’ingresso alla giostra – nel cui tronco sono incisi due nomi. Nomi di cui non si ritrova traccia negli elenchi telefonici, né nell’anagrafe. Non ci sono in nessun documento ospedaliero, elettorale e fiscale. Non c’è nessuna prova della loro esistenza, a parte l’incisione sull’albero. Ed ecco un particolare che potresti trovare affascinante: almeno il cinque per cento dei nomi intagliati negli alberi del Central Park è di origine sconosciuta.» «Questo è davvero affascinante.»
«Dato che tutti i documenti del sesto distretto sono andati alla deriva con lui, non saremo mai in grado di dimostrare che quei nomi appartenessero ad abitanti del sesto distretto, e che furono incisi quando Central Park si trovava ancora nel sesto anziché a Manhattan. Alcuni li credono nomi inventati e, spingendo i loro dubbi di un passo ancor più in là, che anche quei gesti d’amore fossero gesti inventati. Altri credono ad altre cose.» «E tu a che cosa credi?»
«Be’, è difficile per tutti, anche per il re dei cinici, passare più di qualche minuto a Central Park senza avere la sensazione di vivere qualche altro tempo oltre al presente, giusto?» «Penso di sì.» «Forse sentiamo solo la mancanza delle cose perdute, o la speranza in quelle che vogliamo succedano. O forse è il residuo dei sogni di quella notte in cui spostarono il parco. Forse ci manca ciò che quei bambini hanno perduto, e speriamo in quello che loro speravano.»
«E il sesto distretto?» «Che cosa vuoi sapere?» «Che fine ha fatto?» «Be’, ha un buco gigantesco proprio in mezzo, là dove prima c’era Central Park. Man mano che si muove sul pianeta l’isola fa come da cornice, mostrando quello che c’è sotto.» «Adesso dove si trova?» «Nell’Antartide.» «Sul serio?»
«I marciapiedi sono coperti di ghiaccio, il vetro colorato della Biblioteca si sforza sotto il peso della neve. Ci sono fontane ghiacciate in parchi rionali ghiacciati, dove bambini ghiacciati sono fermi all’apice della salita delle altalene, tenuti lì sospesi da corde ghiacciate. I cavalli da nolo…» «Che cosa sono?» «I cavalli che tirano le carrozze nel parco.» «Sono inumani.» «Sono ghiacciati a metà del trotto. I venditori del mercato delle pulci sono ghiacciati a metà contrattazione. Le donne di mezza età sono ghiacciate a metà della loro vita. I martelletti dei giudici ghiacciati sono sospesi fra colpevolezza e innocenza. Per terra ci sono i cristalli ghiacciati dei primi respiri dei bambini, e quelli degli ultimi respiri dei moribondi. Su uno scaffale ghiacciato, in una capanna ghiacciata e tutta chiusa, c’è un barattolo con dentro una voce.»
«Papà?» «Sì?» «Questa non è un’interruzione, ma… hai finito?» «Fine.» «La storia era grandiosa.» «Sono contento.» «Grandiosa.»
«Papà?» «Sì?» «Stavo solo pensando… Credi che un po’ di quelle cose che ho trovato scavando nel Central Park fossero veramente del sesto distretto?»
Lui ha alzato le spalle, che mi piaceva da matti.
«Papà?» «Sì, pulce?» «Niente.»
Fine