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Il Settimo cielo – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Creato il 19 marzo 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Il Settimo cielo – di Iannozzi Giuseppe aka King LearIl Settimo cielo

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Lo decise e non di punto in bianco. Era da tempo che ci pensava. Troppo a lungo aveva rimandato e sempre senza un motivo preciso che giustificasse la sua indecisione

Non amava l’umanità. Non l’amava perché fragile nella carne e ancor di più nello spirito.
Si vergognava d’avere una forma tanto debole: il suo corpo era costretto a mangiare, a bere, a defecare, a urinare, a respirare, a dormire… e a muoversi. Non c’era niente di più disdicevole di tutte queste attività ai suoi occhi. Ma di più lo inorridiva l’idea che per poter riprodursi dovesse finire a letto con una femmina, con una creatura a lui simile al novantanove per cento.
Il corpo era una prigione, una dannata prigione, null’altro che questo.
Non era affatto certo che lassù ci fosse un Dio Padre, ma se c’era e gli aveva dato le sembianze scimmiesche che aveva, allora doveva essere un burlone non poco shakespeariano.
Un uomo minacciava di buttarsi di sotto.
Si trovava al decimo piano di un vecchio palazzo in stile littorio.
Non sembrava troppo agitato per uno che aveva preso la decisione di togliersi la vita, e non in maniera indolore.
Davide era in mezzo a tanti altri curiosi che, in cuor loro, speravano che l’uomo si buttasse: sarebbe stato un sacrilegio se alla fine avesse deciso di non dar più spettacolo.
Non conosceva i motivi per cui quell’anonimo fosse sul punto di ridursi in poltiglia, come tutti gli altri presenti del resto: qualcuno diceva che fosse reduce da una delusione amorosa, qualcun altro invece se la tirava dicendo con tono sin troppo sicuro che l’uomo era oppresso dai debiti. Davide però sapeva una cosa: il cuore dell’uomo si sarebbe fermato durante il volo. La morte l’avrebbe rapito per arresto cardiaco ben prima che il suo corpo si sfracellasse al suolo. Questa certezza lo fece sorridere.
Attese.
Non successe però niente.
Alla fine l’aspirante suicida fu tratto in salvo da una squadra di pompieri. L’uomo fu portato al sicuro come un cagnolino felice e con la coda fra le gambe. Glielo si poteva leggere in faccia che aveva goduto di quei quindici minuti di popolarità che l’avevano visto calato nella parte del suicida.
Davide, disgustato, lasciò il capannello di curiosi senza gettare una sola volta lo sguardo alle sue spalle.

Il giorno dopo si cacciò in chiesa.
Non era mai stato un uomo di fede e se era entrato in terra consacrata doveva esser stato il diavolo a tentarlo.
In ogni modo tra candele accese, voti, ritratti di santi e madonne, Davide non resistette e scoppiò a ridere, subito attirando l’attenzione del parroco che in fretta e furia gli si fece dappresso invitandolo a moderarsi.
“Padre, perché? Colui che ride è forse inviso al Cristo?”
Sulle prime il parroco rimase interdetto. Balbettò, poi fattosi coraggio gli rispose a muso duro che non si poteva, punto e basta: “Questa è la casa del Signore, non un circo”.
Davide ritenne non fosse il caso di ribattere. Con voce atona lo pregò invece d’indicargli un confessionale. Ma una volta accucciato nel buio del confessionale, al confessore ben nascosto dietro la grata non disse che poche parole, senza senso.
Uscì dal buio dopo qualche minuto durato un’eternità.

Durante il volo qualcosa era andato storto: il cuore non gli si era fermato.
Era piovuto giù dal Pirellone, dal trentunesimo piano o giù di lì. Si era tuffato nel vuoto da 127 metri d’altezza. Era più che mai certo di liberarsi una volta per tutte della disgrazia d’essere inscatolato in una prigione di carne e sangue, di fragilità e sconcezze.

Nel momento dell’impatto aveva sentito le ossa spezzarsi una a una.
Aveva baciato l’asfalto con i denti.
Dopo un volo così non c’erano praticamente possibilità di salvezza.
Era venuto giù per dannati 127 metri e si era schiantato a terra. E non era morto.

Mentre i paramedici lo raccoglievano per buttarlo sulla barella, Davide rimase cosciente per tutto il tempo. Arrivò in ospedale più che mai lucido e solo una forte anestesia lo mise a dormire per un po’.
Quando riaprì gli occhi era una mummia di gesso.
Il neurochirurgo che l’aveva operato, un tipo dalla criniera leonina con una folta barba bianca, gli aveva spiegato che sarebbe rimasto immobile per il resto della vita. Non aveva usato giri di parole. Aveva anche aggiunto che si era trattato d’un vero miracolo non morire; tuttavia avrebbe dovuto rivedere la sua posizione: “Tetraplegia completa da lesione midollare C5-C6, irreversibile. Dovrà farci l’abitudine. Ma le assicuro che la sua vita non si fermerà per questo incidente. Ha buone speranze di restare insieme a noi per altri trenta o quaranta anni, per cui non si butti giù”. Significava che per il resto della vita sarebbe rimasto incollato ad un letto.
Davide pianse. Pianse per la prima volta in quaranta anni. Non aveva mai pianto. Mai.
Lui alla vita aveva soltanto chiesto di evadere dalla prigione del suo corpo. Non aveva chiesto l’impossibile, solo di poter raggiungere il Settimo cielo e tornare ad essere o un angelo o un bel nulla.

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