Il silenzio
Abitavamo in un appartamento all’interno di un fabbricato che si affacciava sulla via principale della città. L’appartamento era grande, con alti soffitti e molte finestre. Data l’ampiezza della casa, quando giocavamo dovevamo parlare ad alta voce per riuscire a sentirci. Tutto questo infastidiva mio padre che ci aveva abituati, invece, a conversare a voce bassa, tanto che, invece di parlare, avevamo l’abitudine di bisbigliare. Probabilmente questo suo modo di fare era influenzato dal tipo di lavoro, alquanto faticoso, che svolgeva in fabbrica. Tra le varie incombenze mio padre doveva controllare l’intera catena di montaggio, con venti operai e più, assordato dal rumore delle macchine, con quel loro stritolare e sbuffare tutto il giorno. Ad ogni modo eravamo nel campo delle ipotesi, poiché non chiedemmo mai a mio padre la ragione di questa sua richiesta: lui voleva che noi parlassimo a voce bassa e noi lo facevamo. Quando uscivamo di casa, però, diventavamo molto rumorosi: mio fratello scorrazzava per le strade con la sua bicicletta tra le auto; mia sorella e io urlavamo e cantavamo, alzando a dismisura le nostre voci ogniqualvolta trovavamo modo di uscire dal cerchio oppressivo del bisbiglio tanto bramato da mio padre.
Perfino a scuola i giudizi degli insegnanti erano imperniati sulla nostra particolare turbolenza. Amavamo la musica, in casa c’era un pianoforte di un nero lucente; facevamo a gara a toccare la tastiera bianca, cosa che mio padre non sopportava. L’unico pezzo su cui ci lasciava esercitare era “Per Elisa” di Beethoven, perché era breve, allegro e non eccessivamente impegnativo. In effetti era l’unico pezzo che suonavamo, trascurando del tutto compositori come Schubert, Vivaldi, Haydn e altri. Una volta richiuso, il piano diventava un mobile importante su cui mia madre appoggiava un vaso da fiori e una foto che ritraeva mio nonno nello splendore della giovinezza.
Per non provocare l’ira paterna ci dedicavamo ad altre cose: mio fratello, il maggiore, si era dato alla poesia, componeva versi d’amore che erano molto belli e poesie di altro genere che non erano affatto belle; mia madre sembrava avere la testa fra le nuvole, quasi non si accorgeva dello scorrere del tempo: era appassionata di cucito e riusciva a creare per noi abiti molto belli; giocava con fili di tutti i colori, al dito medio le brillava un ditale d’argento che andava su e giù, in silenzio. Quando accendevamo le luci si alzava, riponeva l’occorrente per il cucito e andava a preparare la cena. Mia sorella, invece, non smetteva mai di disegnare: riusciva a creare dei quadri molto luminosi raffiguranti soggetti chiassosi come dedali di strade piene di gente e auto veloci e rumorose. Solo io non sapevo cosa fare; e allora sognavo. Sognavo molte cose e mi inventavo delle identità che mettevo in cornici familiari; quando mi accorgevo, però, che la cornice diventava troppo stretta e le mie creazioni mi assillavano con richieste sempre più incalzanti, allora le allontanavo e creavo personaggi diversi. Questa attività occupava tutto il mio tempo e assorbiva tutte le mie energie. I rumori della strada giungevano fino a noi solo quando aprivamo le finestre, e così era anche per le stagioni: ci accorgevamo che era arrivato l’autunno quando vedevamo sui balconi le foglie cadute dagli alberi. Questa cosa scuoteva i nervi di mia madre che si metteva a pulire e spazzare il pavimento dei balconi sospirando profondamente; in realtà odiava le serate autunnali, quando noi eravamo ancora a scuola.
In autunno seguivamo dall’appartamento il corso del sole; ce ne stavamo lì seduti a leggere, a scrivere o a disegnare. Ci piaceva molto osservare il tramonto seguendo i movimenti i uccelli schiamazzanti che si libravano nel cielo color oro. Quando giungeva l’inverno mia madre chiudeva le imposte, per cui avevamo la luce accesa tutto il giorno; in inverno aumentava il silenzio, il nostro silenzio e quello della casa, turbati solo dal picchiettare della pioggia sulla lamiera che mia madre aveva appeso sopra il balcone della cucina. Quel rumore monotono e continuo era l’unico legame che avevamo col mondo esterno e le sue voci, un mondo che non vedevamo l’ora di conoscere. In primavera la casa si riempiva di profumi e dei cinguettii degli uccellini che svolazzavano instancabili nello splendore delle giornate. La gente si sparpagliava per le strade sin dal mattino; molto spesso, tendendo l’orecchio, riuscivamo a captare le conversazioni di alcuni passanti e i loro commenti:“Perché l’uomo cade sempre più in basso? Proprio come me che me ne vado giorno e notte a sentire il puzzo dei bassifondi?”
“Non puoi sapere quello che l’uomo desidera in primavera, non puoi sapere quello che ora io sto desiderando”.
“Andremo per una quindicina di giorni a fare un po’ di sport invernali”.
“Speriamo che ti vada tutto bene”.
“Vedrai, andrà bene!”.
Dall’interno del nostro appartamento riuscivamo a vivere in quelle conversazioni e io cominciavo a fantasticare su desideri irrealizzabili, sui fiori che riempivano l’intera città delle loro essenza, sul bel giovanotto di cui avevo sentito parlare; riuscivo addirittura a palpare le migliaia di parole che, prorompendo dalle mie labbra, gareggiavano nella corsa verso l’esterno, quasi fossero delle formiche che mi camminassero in bocca. Mi mordevo le labbra per arrestare quelle parole: e invece di parlare inseguivo un sogno sterile come un feto che muore in utero; mia sorella dipingeva montagne ricoperte di neve e giovani che non ci assomigliavano e sciavano con eleganza senza che nessuno facesse mai un ruzzolone; mio fratello componeva poesie sull’amore in primavera e sul sole che riempie il mondo.A mio padre la primavera non suscitava alcuna emozione. Restava chiuso, come sempre, nel silenzio; entrava in casa con molta calma e si sedeva alla finestra sfogliando il quotidiano. L’alba di un giorno che non conosco – ma che ricordo bene – ci colse con la morte di mio padre. La casa fu scossa dalle urla bestiali di mia madre, urla che udimmo quel giorno per la prima volta; eravamo letteralmente terrorizzati, non riuscivamo a credere che la morte potesse piombare sulla nostra casa spezzando la calma monotonia della nostra vita familiare. Per alcuni giorni non facemmo altro che piangere in continuazione e singhiozzare; poi le lagrime si prosciugarono e noi cercammo di vincere il dolore, infagottati nei nostri abiti neri, dimenticando persino di pettinarci, mentre il viso di mia madre sembrava ricoperto dalla polvere. Per alcuni giorni evitammo di muoverci; gradualmente, poi, ritornammo alle nostre solite attività. Ci occupammo nuovamente della casa, spolverando regolarmente i mobili. Riprendemmo a frequentare la scuola mentre nostra madre – si era ormai in autunno – aveva ricominciato a ripulire i balconi sospirando continuamente; poi si metteva a sedere, a cucire per noi degli abiti scuri.Nella nostra casa continuò a regnare il silenzio; la foto di mio padre – nel fiore della giovinezza – , che aveva sostituito sul piano quella del nonno, ispirava un misto di tristezza e di noia. Eravamo ancora molto scossi: io e mia sorella cercavamo sempre di ritardare il ritorno a casa, trascorrendo molto tempo fuori e cercando qualsiasi modo per vincere l’angustia provocata dalla morte di mio padre.
Mio fratello, invece, aveva preso a sedersi nella posizione preferita da mio padre, vale a dire vicino alla finestra, e ogni volta che, al tramonto, rientravamo in casa lo vedevamo lì che sfogliava giornali con mia madre seduta accanto, intenta a cucire per noi degli abiti scuri per niente belli.Poi, dietro un suo cenno, cominciavamo a scambiarci qualche parola, a mezza voce. I disegni di mia sorella cominciarono a sbiadirsi e tutti i suoi pennelli, che erano sempre stati così impregnati di colore, si asciugarono: i miei sogni si dispersero tra i marciapiedi e le strade dove avevo l’abitudine di gironzolare. Quanto a mio fratello, bruciò tutte le sue poesie.Aveva dimenticato tutti i fumi nerastri sprigionati dalla finestra della nostra cucina, e noi facemmo la stessa cosa.
( Traduzione di Maria Luisa Albano )