Le foglie di olivo tremano con le radici i rami e una barba di muschio lungo i tronchi. È settembre (come in tutti i sogni cavalco i giorni che sono nata), la casa si affaccia sul mare e c'è appena vento. Dal fondo di tutto– ché in tutti i sogni c'è un fondo come una quinta o un prima avviticciato all'ora e magicamente al poi che spolvera o illumina i visi e i posti per via di fisiognomiche e geografie miracolose – dal fondo di tutto arriva movimento il movimento sono foglie le foglie si spaventano dal brivido salta fuori una bestia ferita e aperta lungo il fianco.
La bestia ha un taglio che suda nella luna e cede all'aria ciò che prima era pulito compatto, dove ci sono liquido e schegge, la bestia corre nella corsa le foglie di olivo tremano le radici i rami, e la barba di muschio lungo i tronchi si fa piccola e diventa tante gocce dalla corteccia libro e cambio alle radici ai vermi al buio della terra – ma potrebbe essere anche il fondo di tutto come una quinta avviticciato all'ora e magicamente al poi – la terra trema la casa è in riva al mare ma la riva nel mio sogno è una collina e la collina, che è anche la riva del mare in cui abita la casa in cui mi trovo dentro, è angosciata dal sole dell'ovest – e crolla.
La stessa sostanza ma più icastica e strutturata, tutto l'enorme che sta dietro e che anima il problema figurativo della morte l'ha dipinta Giovanni Acci in un piccolo quadro degli anni quaranta, meglio, si trattava proprio di una tavoletta di legno che nel mio sogno è appesa alle pareti. Nel quadro la morte arriva anch'essa da un fondo legnoso profondo, un fondo che può essere una quinta o una sclera, e fa dibattere un uomo. E steso sopra il legno con la stessa opacità della polvere di falena se le ali crepitano alla lampada, direi con la stessa angoscia, sta il dipinto e per proiezione il suo problema: il fato della bestia e del mare della casa che crolla sta tutto, e detto col sistema della sintesi e della narrazione, nell'avambraccio di un uomo con le vene strizzate e uno scheletro fatto e consistente come un tizzo che tira l'uomo per la tromba delle scale affonda falangi e un braccio fra di esse si contorce ma non cade non cede. Il segno di Acci sta tutto lì e io sono nel mezzo fra il figurativo l'astratto il sonno la veglia.
Dopo che la casa è crollata la figlia, la mia persona, sono morta. Madre e fratello guardano le rovine della casa sulla roccia, la riva del mare alta e solare come fosse una collina, si liberano dalle pietre crollate come avessero dimenticato, con sassate agli uccelli. Uno di essi cade gli altri spaventano e tutti ora possiamo riprendere la cosa che accade sempre senza che si sappia dare un cominciamento definitivo: la terra sfoglia e brucia i piedi hanno fame la testa è leggera. Si deve camminare.
E appunto si cammina senza che i vivi vedano o sentano i morti. Un uomo si unisce al gruppo come i predatori, rincorre senza che lo sentiamo si avvicina sempre alla stessa persona: dice sempre che sono morta lo fa capire mi vuole convincere, ora sospetto, coi gesti. Indica l'ombra sulla sabbia che fanno madre e fratello le nuvole di fiato nel freddo. Io non faccio ombra non con la bocca si forma il velo d'acqua nell'aria del mattino se soffio con tutto il dentro del mio corpo. Perché non c'è corpo, ora lo capisco. E mentre lo capisco l'uomo mi ha già presa per un braccio. Gli altri continuano a camminare.
giovanni acci, La Morte, metà anni '40, olio su tavola cm 33*25 (particolare)