Il 20 gennaio ha segnato il ritorno di Gabriele Lavia sul palco del Teatro Petruzzelli di Bari, con il recital del monologo tratto dal racconto “Il sogno di un uomo ridicolo” di Dostoevskij.
La scissione profonda, il tormento, nascono dalla consapevolezza del rifiuto: nonostante cerchi affannosamente di dare una dimensione a ciò che lo circonda, egli si annulla in questa inconsistenza e precipita per autodifesa nell’indifferenza: proprio lui, che cercava il riscatto dal nulla, finisce per ridursi ad una non-esistenza meditando disperatamente il suicidio, così da cancellare completamente e definitivamente l’atto che non sa portare avanti: vivere.
Racconta di quella stella che splendeva nello squarcio di una nuvola in una notte umida e ostile come la pioggia appena cessata, di come quel candore irraggiungibile lo avesse convinto che quella fosse la notte giusta per suicidarsi e finalmente portare
Rannicchiato sulla sua poltrona cerca la morte, ma non la trova: la rivoltella resta sul tavolino, con la candela che si strugge. Crolla addormentato dopo essersi logorato: voleva morire perché non riusciva più ad essere altro che indifferente. Invece, quella bambina che lo ha chiamato e che lui ha rifiutato, quel pianto inquietante stretto in gola, gli hanno fatto sentire la pietà. Empatia. Lui ha partecipato a quel dolore, ma l’ha rifiutato, è fuggito. Come può morire adesso che nel cuore lo punge uno spillo senza tregua? Si addormenta.
“Vedrai tutto” insiste con tristezza profonda l’oscuro essere che l’ha accompagnato ed egli vedrà corpi e uomini belli, consapevoli di essere parte di un’unica armonia universale e perciò incapaci di conoscere il dolore, la divisione, la differenza: sono tutti uguali tra loro nella purezza. L’uomo ridicolo sarà capace, quasi per gioco, di corrompere quell’armonia: così lui stesso diverrà l’entità dal potere perverso di mostrare il male, distribuirlo e insegnarlo. E tuttavia, allo stesso tempo, si offrirà morente in croce per riscattare i deviati, non messia di un Dio potente e misericordioso, ma di se stesso: è l’uomo ridicolo che li ha corrotti, ma li ama ancora di più proprio perché “sbagliati”, l’uomo ridicolo che tenta di far ricordare loro l’armonia che li reggeva quando non conoscevano il dolore, si offrirebbe addirittura per costruire la croce su cui farsi immolare. Ma adesso sono gli altri che lo rinnegano e lo trovano ridicolo.
Si sveglia. “Ama il prossimo tuo come te stesso” vuole predicare, in una critica alla scienza che spesso diviene lo strumento per interpretare e conoscere le leggi della vita, senza mai arrivare davvero alla verità della vita: l’unico modo per essere è sentire gli altri. L’empatia che quella bambina gli ha fatto provare è la vita che ha sentito di non poter più uccidere in se stesso. Perciò, ora che professa il coinvolgimento, quella sorta di comunione, la “pietas”, è ridicolo. Pazzo, perché crede che nel sogno possa esserci la verità.
Dostoevskij scriveva della lotta di un uomo che vorrebbe essere felice in mezzo agli altri riconoscendo il raziocinio estremo come annullamento del pensiero e le conquiste, le leggi scientifiche come privazione e perdita.
Lavia è sapiente Maestro: nella figura, nel corpo-parola porta addosso la consapevolezza che il cammino è lungo per chiunque voglia riscattarsi e riscattare la società in cui vive e che, a volte, si può avere la sensazione che non ne valga davvero la pena perché spesso chi ci ascolta non coglie, sia pure nella differenza individuale, il principio di uguaglianza che accomuna tutti gli uomini.
Nel dare forma all’”impossibile essenza” che è il Teatro, Lavia guida lo spettatore verso la riflessione critica, trascinandolo in una composizione – per dirla in musica – sincopata e contrappuntistica in cui si gusta il discorso polifonico interiore della “persona” – l’uomo ridicolo – che la metafisica fisicità di Lavia riporta alla luce dal buio della coscienza sopita con la forza dirompente dell’utopia.
Written by Irene Gianeselli