IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA di Ninnj Di Stefano Busà Ed. Tracce Pescara

Da Lindapinta

“Il sogno e la sua infinitezza”

testo poetico di Ninnj Di Stefano Busà (Tracce Edizioni)

 

 

Con prefazione di Walter Mauro, Tracce Edizioni ha pubblicato un nuovo lavoro poetico di Ninnj Di Stefano Busà, dal titolo “Il sogno e la sua infinitezza”, i cui versi si susseguono con flussi metaforici incessanti che ricordano l’andirivieni del mare o l’imprevedibile fluire del tempo, o ancora l’erompere perenne delle cose. Un fuoco pirotecnico, attivo soprattutto nelle pagine finali del testo, la cui struttura, in un certo senso poematica, segue il dipanarsi di un pensiero non pensato, ma come colto nel vento. Un pensiero incontenuto e incontenibile, che sembra non concludersi con l’ultima pagina del testo e rinviare ad una continuazione-ripetizione infinita.

Ed è l’infinito, per l’appunto, o l’eterno, nei suoi rapporti con il relativo, ad interessare la poetessa e a coinvolgere il lettore fin dalle prime battute. Anzi, fin dall’esergo, dove, della Poesia si dice: “dagli abissi del male, spicca il volo/ e il mondo viene avvolto / di assoluto”. Questo lavoro della Busà è tutta un’interrogazione sulla valenza dei sogni e della poesia: “Una scrittura, scrive giustamente Walter Mauro, che con coraggio va ad occupare uno spazio non indifferente nel diorama di oggi, non soltanto per il perenne discorso sull’uomo, ma anche per la preziosa consuetudine di restituire alla parola poetica la sua più vera, autentica e alta connotazione”.

Leopardianamente, questa poesia ha radici nel dolore, nel senso di sconfitta per la perdita dei doni elargiti e poi cancellati (sadicamente, si direbbe) dalla natura. Un mistero insondabile che informa sul rovescio della medaglia, sul verso e sul recto di ogni situazione. Per cui, in fondo, ogni postulato è reversibile, e, se da un lato è “una luce, la nostra, che ha il debito dell’usura, / l’orizzonte sempre lontano”, dall’altro emerge e si afferma inequivocabile la bellezza del dono: “Eppure è chiaro il giorno, c’è tanta luce intorno”. La realtà non è mai univoca e riserva sempre dei lati nascosti, delle sorprese per la ragione, che, riduzionista, si preclude la strada al pieno godimento dell’esistenza, all’immersione nell’equilibrio, nel mistero del più e del meno.

Se è vero che la morte ingoia ogni cosa (“Così la morte, una lingua muta / che sbianca carne e sangue, / fin dove scorre il soffio della linfa, / a sciame cattura il brusio tenue della vita”), all’improvviso un risucchio estatico indica le vie dell’intramontabile amore: “A tutti ci restituisce l’innocenza, l’amore, / mentre calziamo l’ipotesi del volo, / ma non abbiamo ali che ci spingano / in mare aperto / lì dove si compie / il miracolo di luce, lo spoglio della vita / che ti respira e ti perde, come il sole d’inverno”. E’ un’altalena di luci e tenebre, la vita, un magma incandescente di asprezze e tenerezze a non finire.

Pervasiva è l’amarezza esistenziale: quella visione keerkegaardiana della vita, certamente intrisa di fede, che vede tuttavia l’assoluto fuggire dal mondo, al di là delle apparenze sensibili: “Ogni cosa è realtà di assenze”; “Ogni cosa è inizio alla sua fine”. Per cui la vita è vista come allontanamento dalla pienezza, come heideggeriano svuotamento dell’essere, come fuga dall’eden e irreparabile oblio: “La fatica del viaggio ci rende corpi / inospitali all’amore”; “Allo sferragliare dei treni, / l’ultimo addio si ripete e stordisce”.

Ai vagheggiati e chimerici sogni (“Ogni sogno ci lascia dietro di sé / scie di felicità incompiuta”), si oppone la realtà cruda dell’esistenza, il sonno della terra che tutto azzera ed annulla, e “continua a lastricare di morti la breve distanza / tra noi e la vita”. Agli slanci dell’animo, puntuali seguono le cadute (“le radici della schiarita e poi lo schianto”). E tuttavia, se è vero che “ognuno col suo fardello di sogni / scende verso il fiume /… / di felicità negata, di neve e dolore”, è altresì vero che nella notte avviene il miracolo della rinascita e “si avvia la recrudescenza ambigua / che ti denuda e risorgi”, “come un dio minore dalla sua croce”.  

Non è chiaro, dunque, se i sogni siano vani o se invece siano brandelli di verità sbranate dalle umane illusioni. In alcuni momenti la poetessa sembra tornare alla realtà degli archetipi, ai momenti aurorali dello spirito, portandoci in alto con lei: “Tu rosa candidissima, mio sogno, torna / al brivido primo, alla placenta che nutriva / il molteplice dall’irripetibile vagito, / della prima aurora del mondo”. In altri momenti invece sembra impossibile superare il valico che conduce dal relativo verso l’assoluto, dacché l’indissolubile, l’incorruttibile, “ingurgita i veleni del mondo “ e “ci turba… il diluvio delle mutate sembianze”.

Stupenda l’immagine (heideggeriana) che vede catapultarsi l’Essere, dalle sorgenti incontaminate, nel vulcano doloroso della vita: “ci sei mio cuore, essenza liquida, / balzo di radici dentro il terrapieno” dell’esistenza. Da qui, da questo mare delle imperfezioni, rinasce a volte la percezione dell’assoluto; ma è fortuna rara, perché noi “non sappiamo riconoscere / la terra dal cielo, la verità dal dubbio”, e se potessimo superare l’inganno (il trickster) “che sa legare vita/morte in un sol nodo”, capiremmo in fondo come le cose possano rinascere dal loro stesso declino ed “emergere la città morente dentro le sue mura”.

C’è, in questa poesia, la lotta tra l’Essere e il Tempo (il “punto fermo all’orizzonte” che “cede alla furia degli eventi”). Lotta che è anche abbraccio, come “l’ulivo contorto”, nella sua “nuda imperfezione”, spinto a “catturare eternità tra i suoi nodi”. E qui la radice esistenzialista-keerkegaardiana di cui abbiamo parlato sembra cedere il passo a quella visione animistico- francescana delle cose, che al contrario vede il divino nel mondo, l’eterno calato nelle contingenze terrene. Una poesia filosofica, pertanto, e fortemente immaginifica, che riflette sul rapporto aporetico dell’immanenza con la trascendenza, dell’assoluto con il relativo. Così assistiamo ad un doppio processo, uno di estraniazione e l’altro di adesione nei riguardi del mondo, il tutto finalizzato all’armonia.

Rapimenti ultrafisici e delusioni esistenziali, in un impianto metaforico sorprendente. Incandescenza pura. Simbolismo che conduce verso le scaturigini universali dell’Essere, in un vitalismo doloroso per promesse sempre insidiate dalle negazioni. L’energia incontaminata cade nella materia cosiddetta “bruta” o “impura”, e ciò che è rarefatto si condensa: “Tutto scorre per trasformare in pietra / anche il minino nocciolo della scintilla”. E noi “abitiamo l’addio, vaghiamo in direzione / del tempo, come fiato che si perde / nella corrente sonora di un flauto”.

Ne segue che l’uomo finisce per rifiutare le proprie radici cosmiche: “siamo ombre alla luce della resurrezione” e “nel fondiglio opaco, creature indivise, / rifiutiamo sempre la fedeltà delle galassie, / l’acerba sostanza che muove gli alfabeti”, che muove ossia la vita e la storia. Eppure, d’un tratto, misteriosamente, alla poetessa si rivela, al di là dello spazio e del tempo, la propria essenza ultrafisica: “Sono nuda nel mio principio cosmico, / nella ragione di umanità che culmina / d’un tratto col silenzio”. Ed è una riscoperta di “memorie quiescenti”, di “effluvi dimenticati”, di “un altro orizzonte insondabile, / che mi fa rinascere creatura alare.

Franco Campegiani


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