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Film naturalmente on the road, Il sorpasso (1962) è, a ragione, uno dei capisaldi della cinematografia italiana. Per un titolo che ha superato il mezzo secolo e che rappresenta e dipinge con una certa vividezza gli anni Sessanta nel Bel Paese, il capolavoro di Dino Risi ha un suo fascino attualissimo. È insieme un viaggio esistenziale e il rifiuto di qualsiasi retrospettiva, è l'incontro tra l'Italia cialtronesca e sexy, che sbandiera la sua innocenza e si rende conto della sua incapacità di costruire il proprio futuro. Il "sorpasso" del titolo, oltre a richiamare diverse scene del film, è allegoria di una vita senza progetto, che non sa dove andare, ma vuole comunque andare più veloce, superare gli altri, essere più che se stessa. È l'arte di non bastarsi e di non raggiungersi, un'ambizione che, per la sua leggerezza, è pura velleità di un seduttore saccente e ciarliero (e non è un caso che Bruno-Gassman vanti l'odorato perfetto di Don Giovanni per le donne).
Il titolo del film è stato tradotto in inglese con The Easy Life, un po' per fare il verso al fortunatissimo La dolce vita di Fellini, di appena due anni prima. A me pare, però, che l'idea originale di Dino Risi restituisca un aspetto cardine del film, ovvero quello di un forte dualismo. Non abbiamo qui una semplice "corsa", uno scatto a perdifiato, ma proprio un sorpasso, la manovra che presuppone l'esistenza dell'altro, di un estraneo che va più lento e ci ingombra la strada. Il sorpasso implica l'insofferente moto di rivolta alla velocità che ci viene imposta e che la nostra stessa carreggiata sembra suggerirci. Bruno - che vive di espendienti - non rispetta il suo posto, trascina con sé il guardingo, pauroso, irrisolto, contraddittorio Roberto, lo conduce fino in fondo alla sua vita, che poi tanto a fondo non sembra essere andata.
Dal passato di quest'autista irriverente e irresponsabile emergono quasi per caso relitti e macerie: un matrimonio, quello con Gianna (Luciana Angiolillo), che è naufragato nel nulla, e una figlia, Lilly (Catherine Spaak) che ha preso ormai la strada della vita adulta in autonomia ma con un fortissimo bisogno di protezione e paternità. La giovane, bellissima, ha nostalgia della presenza di Bruno, ma lo chiama per nome e sembra non riconoscergli il ruolo, salvo poi rivelargli il suo amore nella richiesta di non cambiare mai (come se per l'uomo fosse possibile). Nessuno si aspetta che Bruno possa venir redento - tranne forse nella sequenza che, non a caso, chiude il film - e questa irredimibilità conferisce al suo personaggio la simpatia popolare della maschera, la resa incondizionata al carattere come se fosse un destino.
Senz'altro Il sorpasso - scritto dallo stesso Dino Risi insieme a Ettore Scola e Ruggero Maccari) - è un film di caratteri, ma questi sono talmente forti da conferire concretezza e continuità ai diversi episodi che si susseguono, ciascuno con una sua relativa autonomia. Il clacson della Lancia Aurelia, con la sua altisonante urgenza, contribuisce a scandire il tempo e ammorbidire le distanze, creando quell'amalgama sonoro che si affianca al percorso visivo per ritrarre l'Italia variegata e vitale dei primi anni '60. Sarà una tragica intuizione di Dino Risi quella per la quale l'ottimismo senza profezia del protagonista, facilone e dispersivo, imprudente e finanche impudente, si troverà a fare i conti con il baratro a cui ha costretto la sua anima più fragile e introversa. Nella drammatica scritta "fine" sull'ultimo fotogramma si annida l'assenza di ogni introspezione, il giudizio viene sospeso e il pubblico viene lasciato solo dinanzi ai fatti: il futuro c'è, però prende strade diverse.
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