La morte di Mandela, avvenuta il 5 dicembre del 2013, lascia un Sud Africa alle prese con diversi problemi. Storia difficile quella di questo Paese, che comincia nella lontana metà del XVII secolo quando la compagnia olandese delle Indie orientali creò il primo insediamento a Table Bay, l’odierna Cape Town: i coloni presero il nome di “ Boeri”, dall’olandese “contadino”. Sorpresi e incantati dalla ricchezza della vegetazione, dal buon clima, dalla bellezza e dalla fertilità di quella terra, riuscirono a insediarsi e a vivere con relativa tranquillità per circa 200 anni.
La situazione precipitò nel 1795 allorché l’Olanda, indebolita del suo forte potere mercantile e occupata dalla Francia di Napoleone Bonaparte, chiese aiuto all’Inghilterra, la quale col suo esercitò si stanziò nella Colonia del Capo. Consapevoli dei giacimenti d’oro e di diamanti del Sud Africa e della concorrenza tedesca nella conquista del continente africano, gli inglesi decisero di assoggettare e di eliminare in qualche modo gli storici coloni olandesi, i quali non erano certamente propensi a concedere le loro terre e dividere le proprie ricchezze con le migliaia di immigrati britannici che erano arrivati fin lì alla ricerca dell’oro.
Il pretesto per muovere guerra ai boeri fu dato dal fatto che questi ultimi non concedevano i loro diritti civili agli stranieri. Il primo ministro di Sua Maestà, Lord Salisbury, pretese che fosse concesso il diritto di voto agli immigrati (Utilanders) nel Transvaal dopo almeno cinque anni di residenza. Tale ex regione sudafricana, tra l’altro, produceva anche una quarto dell’oro di tutto il mondo: è facile dunque immaginare gli interessi in gioco, tenendo ben presente che altro scopo degli anglosassoni fu anche quello di impedire che i boeri potessero creare un collegamento col feudo portoghese della Baia di Delagoa, poiché in tal caso si sarebbero potuti svincolare dall’esigenza di utilizzare le ferrovie inglesi fino al Capo per il traffico derivante dallo sfruttamento delle miniere. Da non sottovalutare poi che, nonostante l’importanza strategica per il commercio nel continente nero del canale di Suez, c’era bisogno di trovare comunque una valida alternativa in caso di una sua chiusura. Il Capo era, tra l’altro, anche una base militare di grande importanza per i britannici.
Seguirono due sanguinosissime guerre tra il 1880 e il 1902 fra le parti in causa. Il brutale imperialismo inglese ebbe la meglio: oltre a incendiare sistematicamente le fattorie dei coraggiosi coloni olandesi che attuarono una strenua resistenza, esso utilizzò per la prima volta nella storia di un conflitto campi di concentramento, nei quali morirono di fame e malattie circa 26000 deportati tra donne e bambini boeri e altri indigeni. A guerra finita furono inglobate così le repubbliche boere (cioè la Repubblica del Transvaal e lo Stato libero dell’Orange) nella Colonia del Capo.
La metà del XX secolo si caratterizza per la nota parentesi dell’apartheid, che dura fino alla metà degli anni novanta, arrivando poi sino ai nostri giorni, in un contesto per niente facile da gestire per il partito in carica dell’African National Congress (movimento politico appoggiato dalla popolazione di colore a cui si contrappone la Democratic Alliance, partito liberale sostenuto dalla minoranza bianca, da una piccolissima fetta di neri e dai meticci).
La cacciata dell’ex leader della federazione giovanile Julius Malema ci mostra come siano ancora ben presenti problemi di convivenza all’interno del paese.
Ne è testimonianza il clima di violenza e soprusi che colpisce tutt’oggi la popolazione boera: si contano circa migliaia di omicidi avvenuti all’interno delle loro fattorie nel silenzio della comunità internazionale.
Sicuramente è stato in passato fondamentale anche in tal senso il ruolo di Nelson Mandela, non solo nel cercare di porre fine all’apartheid e nel condurre alla normalizzazione della propria terra insieme alla minoranza bianca, ma anche nel porre argine ed evitare che si concretizzassero vendette di carattere sociale e quindi un ulteriore bagno di sangue. Purtroppo sembra che l’ex premio Nobel non sia riuscito a forgiare una classe dirigente in grado di raccogliere il suo testimone. Corruzione all’interno del partito, accuse di cattiva governance che lo stesso Mandela aveva lanciato qualche tempo fa a Mbeki e il recente scandalo nel quale è stato coinvolto l’attuale presidente Zuma, per aver speso circa 27 milioni di dollari pubblici per la sua residenza privata, ne danno un quadro completo. A dicembre, lo stesso è stato addirittura fischiato durante il suo discorso commemorativo pronunciato allo stadio di Soweto, il giorno della cerimonia funebre di Madiba, poiché accusato di clientelismo e di aver tradito le promesse fatte all’inizio del suo mandato, dalla riforma agraria, a quella sanità, passando per la lotta alla povertà e al miglioramento dell’istruzione. Si è assistito, invece, nel corso di questi anni a una situazione in cui sono aumentati i super ricchi del partito definiti “black diamonds”, uomini della dirigenza e non solo, incolpati dai propri elettori di aver semplicemente badato al proprio tornaconto personale, cercando soprattutto di acquisire in qualche modo il controllo sul sistema industriale nazionale in settori chiave come quello delle estrazioni e delle materia prime.
Ma i problemi non finiscono qui. L’economia, pur essendo la prima del continente e la ventiseiesima al mondo, e nonostante le buone infrastrutture di cui gode il Paese, stenta a decollare. Il discorso pronunciato lo scorso febbraio dal primo ministro delle Finanze sudafricane Pravin Gordhan nella presentazione della nuova finanziaria di fronte al Parlamento lasciava presagire una situazione economica che seppur difficile, così come in buona parte del globo, ha comunque un potenziale di crescita per il 2014.
Indubbiamente sono anche parole che hanno cercato di difendere l’operato del governo, ma in realtà c’è ancora tanto da fare. La disoccupazione resta nel terzo trimestre del 2013 al 24,7%; le proteste e le tensioni sociali comportano un rallentamento della crescita del PIL. Da ricordare anche i recenti scioperi dei minatori per il proprio salario e per il reintegro dei lavoratori licenziati, sedati brutalmente dalla polizia uccidendo 34 dimostranti. Poco si è fatto nel corso di quest’ultimi tempi anche riguardo agli investimenti e all’attrazione di capitali stranieri. La mancanza, poi, di una forza lavoro specializzata, acuita dalla continua fuga di cervelli all’estero, sicuramente non aiuta, così come il decremento della produttività interna che ha causato un aumento delle importazioni con tanto di calo nel saldo della bilancia commerciale.
Ulteriore limite è costituito dalla forte dipendenza nelle esportazioni, in primis quella delle materie prime come l’oro, e poi dalla Cina che rappresenta una quota del 15%. L’economia nel complesso è molto legata a flussi di capitale di portafoglio, immediatamente pronti ad abbandonare il Sud Africa in caso di difficoltà, e presenta un settore bancario da riformare in quanto troppo dipendente dagli interventi governativi . Il debito estero complessivo si assesta intorno al 36% del PIL (valore tutto sommato non elevato) ma la debolezza della valuta, il rand, rappresenta un forte handicap se pensiamo che il suo deprezzamento è del 26% nei confronti dell’euro e del 24% rispetto al dollaro. Il rischio peggiore però è quello di subire un declassamento del debito sovrano da parte delle agenzie di rating e questo certamente sarebbe un durissimo colpo.
Il 2010 sembrava l’anno della rinascita per il Sud Africa: i mondiali di calcio, un situazione economica di tutto rispetto che lasciava ben sperare e una politica basata su una certa attenzione alle disparità razziali e sociali, sembravano potessero veicolare definitivamente questa nazione -definita “arcobaleno” proprio per il mix delle sue diversità culturali, razziali e paesaggistiche- verso un futuro quantomeno sereno. Purtroppo le tensioni sociali tuttora presenti, un alto tasso di criminalità, un sistema di welfare che non copre circa metà della popolazione, insieme a una dilagante disoccupazione che in certe zone è del 50%, non dimenticando inoltre povertà e diseguaglianze ancora diffuse, lasciano intendere come quella idea di Paese tanto desiderata da Nelson Mandela sia ogni giorno sempre più lontana dalla sua visione.
Le elezioni di maggio sono alle porte e le sfide da affrontare sono ancora tante: l’auspicio è che il famoso e significativo simbolo dell’arcobaleno non diventi semplicemente uno sbiadito ricordo, ma l’emblema di un riscatto e di una rinascita per l’intero continente.
*Giuseppe Perrotta è laureato in Giurisprudenza presso l’Università del Sannio
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