La morte di Robin Williams, uno degli attori più famosi e amati dal grande pubblico, ha suscitato sentimenti di commozione ma anche qualche critica feroce. La ragione di queste ultime è che si è suicidato, creando un profondo sbigottimento e un biasimo nemmeno troppo velato. Come se il suicidio di un uomo ricco, famoso e benvoluto fosse uno sgarbo ingiustificato. Qualunque siano state le ragioni per cui Robin Williams si è tolto la vita, nell’ora in cui molti esaltano la sua figura (fortunata) di attore e indagano su quella (meno fortunata) di uomo, è doveroso riflettere sul senso di un gesto antico come l’umanità ma sempre attuale. Tant’è che è la decima causa di morte nel mondo. Un gesto capace di emozionarci come pochi altri avvenimenti e scatenare una bufera nell’animo. Già, perché il suicidio, agli inizi del terzo millennio, è ancora un tabù, un fatto di cui parliamo mal volentieri e sempre con superficialità e pregiudizio. Un fatto che ci inquieta e infastidisce, più che addolorarci. In ciò siamo condizionati dalla morale giudaico-cristiana, che condanna il suicidio e, appellandosi al comandamento “non ammazzare”, lo considera un peccato gravissimo. Non tutti la pensano così, però. Esistono, da sempre, due scuole di pensiero. Quella di cui è informata la civiltà occidentale ed è condivisa dalla maggioranza degli abitanti del pianeta, definisce il suicidio un atto di viltà, un rifiuto inaccettabile del dono di Dio e una grave ribellione ai suoi piani. Perciò, non abbiamo pietà del suicida. Salvo eccezioni, lo disprezziamo e metaforicamente lo seppelliamo extra moenia, in terra non consacrata. Va precisato, a onore del vero, che fino ai tempi dell’imperatore bizantino Giustiniano il Grande, il suicidio non era considerato un peccato e che la Chiesa cristiana lo definì tale solo nel Medio Evo, grazie a Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino. Chissà cosa ne pensava realmente Gesù e come accolse la notizia del suicidio di Giuda? Gli antichi erano meno assiomatici di noi. Socrate che si uccide con la cicuta in carcere o Seneca, che nelle Epistole morali a Lucilio giustifica il suicidio e finisce per togliersi la vita stoicamente, sono solo due esempi che suscitano rispetto anziché riprovazione e la dicono lunga su come fossero possibilisti i nostri avi. Gli stessi ebrei, pur ritenendo che darsi la morte significasse negare la bontà di Dio, giustificavano il suicidio individuale e collettivo quando era in gioco la propria fede o libertà. Il martirio e l’assedio di Masada lo dimostrano. Veniamo ora alla seconda scuola di pensiero, quella che giustifica il suicidio e in molti casi lo considera una virtù. In alcune civiltà e culture, suicidarsi è considerata la via maestra per conservare la dignità e l’onore. Una via di scampo, in fondo. Il Giappone insegna; dagli antichi samurai ai piloti kamikaze, il seppuku (il suicidio rituale) è non solo tollerato ma incoraggiato. Non diversamente dai samurai, oggi i terroristi islamici si sacrificano in nome della “guerra santa” e agli occhi della comunità di cui fanno parte il loro martirio li trasforma in eroi. Il valore della vita è opinabile e il gesto di darsi la morte non ha sempre avuto le stesse valenze. Basti pensare che fino all’Ottocento, il suicidio era considerato un reato mentre oggi non è più un crimine in alcuna nazione europea. La sua depenalizzazione è indice di un parziale cambiamento delle nostre posizioni (per lo meno giuridiche) nei confronti di chi si toglie la vita. Sembrerebbero lontani i tempi in cui Dante relegava i suicidi nell’Inferno, nel cerchio dei violenti contro se stessi. Per altro, il divin Poeta condannò Pier delle Vigne ma non l’altro illustre suicida, Catone, il cui merito fu di rifiutare la vita in nome della libertà. Mi sono chiesto quale Italia scopriremmo se la Doxa o un qualsiasi istituto demoscopico chiedesse alla gente per strada cosa pensa del suicidio. Non di Robin Williams, ma in generale. Immagino che i più darebbero risposte di convenienza o ipocrite. Amiamo i suicidi degli uomini illustri e quelli letterari. Non ci scandalizziamo se Anna Karenina si butta sotto un treno per amore o se Giulietta si pugnala dopo avere perso Romeo. Il suicidio ha reso immortali Pavese ed Hemingway, che se fossero morti di vecchiaia nel loro letto avrebbero meno fascino. Come Luigi Tenco, che tutti ricordano perché si suicidò al Festival di San Remo. Ma il suicidio del nostro vicino di casa ci riporta con i piedi per terra. Se a suicidarsi, poi, è un senzatetto o un estraneo di cui non c’importa nulla, facilmente scatta la nostra riprovazione e con essa i luoghi comuni. Chi si toglie la vita è un vigliacco, un perdente, uno stupido. Siamo poco indulgenti anche con chi si suicida perché vessato dallo Stato. E se il suicida fosse solo un essere umano che non vede altra via d’uscita? Quante persone, come Robin Williams, decidono di farla finita perché la depressione ha tolto loro il discernimento o il dolore ha reso ciechi? Che diritto abbiamo di giudicare chi si arrende alla vita senza condizioni? Perché di questo si tratta, di una resa incondizionata. Ci si suicida perché non si vedono soluzioni o vie d’uscita. È una colpa? È un affronto a Dio? Bè, l’Onnipotente ci ha donato la vita ma nel farlo non è stato imparziale. Ad alcuni ha offerto una vita in piano o addirittura in discesa. Ad altri, una vita terribilmente in salita. A tutti, ha offerto il libero arbitrio, quindi la facoltà di decidere cosa fare della propria esistenza. Anche quando e come concluderla? Non so, non ho certezze in merito. Ricordo una splendida frase di Edgar Lee Masters, la cui Antologia di Spoon River è, a mio parere, uno dei libri più belli che siano mai stati scritti. “A che serve sbarazzarsi del mondo quando nessun’anima mai sfugge al destino eterno della vita?”. Vorrei che i miei lettori, scossi dal suicidio di Robin Williams, indimenticabile interprete di ruoli straordinari, riflettessero su questa frase. E se il suicidio fosse solo un’interruzione momentanea? Le parole di Masters sono la chiave per comprendere il valore, positivo e negativo, di un atto estremo di fronte al quale non dovremmo indignarci né sentenziare ma solo provare una profonda, intensa compassione. Ogni volta che un essere umano si toglie la vita è come se ci dicesse con il cuore in gola: mi sono arreso, non ce la faccio più. Me ne assumo le responsabilità e spero di farcela a superare le mie prove, la prossima volta. Potrebbe capitare a chiunque, e soprattutto a chi si crede forte. Potrebbe avvenire per eccesso di viltà o eroismo, per stanchezza o disgusto, a causa del dolore fisico o psichico. Bisogna amarsi molto per suicidarsi, ha scritto Albert Camus. E se fosse vero il contrario? Se la nostra vita diventasse improvvisamente insopportabile e smettessimo di essere amati e amare noi stessi? La cosa migliore che dobbiamo augurarci è di non trovarci mai nella condizione di arrenderci per quanto vorremmo continuare a lottare. Salvo credere che avremo una possibilità di riscatto.
La morte di Robin Williams, uno degli attori più famosi e amati dal grande pubblico, ha suscitato sentimenti di commozione ma anche qualche critica feroce. La ragione di queste ultime è che si è suicidato, creando un profondo sbigottimento e un biasimo nemmeno troppo velato. Come se il suicidio di un uomo ricco, famoso e benvoluto fosse uno sgarbo ingiustificato. Qualunque siano state le ragioni per cui Robin Williams si è tolto la vita, nell’ora in cui molti esaltano la sua figura (fortunata) di attore e indagano su quella (meno fortunata) di uomo, è doveroso riflettere sul senso di un gesto antico come l’umanità ma sempre attuale. Tant’è che è la decima causa di morte nel mondo. Un gesto capace di emozionarci come pochi altri avvenimenti e scatenare una bufera nell’animo. Già, perché il suicidio, agli inizi del terzo millennio, è ancora un tabù, un fatto di cui parliamo mal volentieri e sempre con superficialità e pregiudizio. Un fatto che ci inquieta e infastidisce, più che addolorarci. In ciò siamo condizionati dalla morale giudaico-cristiana, che condanna il suicidio e, appellandosi al comandamento “non ammazzare”, lo considera un peccato gravissimo. Non tutti la pensano così, però. Esistono, da sempre, due scuole di pensiero. Quella di cui è informata la civiltà occidentale ed è condivisa dalla maggioranza degli abitanti del pianeta, definisce il suicidio un atto di viltà, un rifiuto inaccettabile del dono di Dio e una grave ribellione ai suoi piani. Perciò, non abbiamo pietà del suicida. Salvo eccezioni, lo disprezziamo e metaforicamente lo seppelliamo extra moenia, in terra non consacrata. Va precisato, a onore del vero, che fino ai tempi dell’imperatore bizantino Giustiniano il Grande, il suicidio non era considerato un peccato e che la Chiesa cristiana lo definì tale solo nel Medio Evo, grazie a Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino. Chissà cosa ne pensava realmente Gesù e come accolse la notizia del suicidio di Giuda? Gli antichi erano meno assiomatici di noi. Socrate che si uccide con la cicuta in carcere o Seneca, che nelle Epistole morali a Lucilio giustifica il suicidio e finisce per togliersi la vita stoicamente, sono solo due esempi che suscitano rispetto anziché riprovazione e la dicono lunga su come fossero possibilisti i nostri avi. Gli stessi ebrei, pur ritenendo che darsi la morte significasse negare la bontà di Dio, giustificavano il suicidio individuale e collettivo quando era in gioco la propria fede o libertà. Il martirio e l’assedio di Masada lo dimostrano. Veniamo ora alla seconda scuola di pensiero, quella che giustifica il suicidio e in molti casi lo considera una virtù. In alcune civiltà e culture, suicidarsi è considerata la via maestra per conservare la dignità e l’onore. Una via di scampo, in fondo. Il Giappone insegna; dagli antichi samurai ai piloti kamikaze, il seppuku (il suicidio rituale) è non solo tollerato ma incoraggiato. Non diversamente dai samurai, oggi i terroristi islamici si sacrificano in nome della “guerra santa” e agli occhi della comunità di cui fanno parte il loro martirio li trasforma in eroi. Il valore della vita è opinabile e il gesto di darsi la morte non ha sempre avuto le stesse valenze. Basti pensare che fino all’Ottocento, il suicidio era considerato un reato mentre oggi non è più un crimine in alcuna nazione europea. La sua depenalizzazione è indice di un parziale cambiamento delle nostre posizioni (per lo meno giuridiche) nei confronti di chi si toglie la vita. Sembrerebbero lontani i tempi in cui Dante relegava i suicidi nell’Inferno, nel cerchio dei violenti contro se stessi. Per altro, il divin Poeta condannò Pier delle Vigne ma non l’altro illustre suicida, Catone, il cui merito fu di rifiutare la vita in nome della libertà. Mi sono chiesto quale Italia scopriremmo se la Doxa o un qualsiasi istituto demoscopico chiedesse alla gente per strada cosa pensa del suicidio. Non di Robin Williams, ma in generale. Immagino che i più darebbero risposte di convenienza o ipocrite. Amiamo i suicidi degli uomini illustri e quelli letterari. Non ci scandalizziamo se Anna Karenina si butta sotto un treno per amore o se Giulietta si pugnala dopo avere perso Romeo. Il suicidio ha reso immortali Pavese ed Hemingway, che se fossero morti di vecchiaia nel loro letto avrebbero meno fascino. Come Luigi Tenco, che tutti ricordano perché si suicidò al Festival di San Remo. Ma il suicidio del nostro vicino di casa ci riporta con i piedi per terra. Se a suicidarsi, poi, è un senzatetto o un estraneo di cui non c’importa nulla, facilmente scatta la nostra riprovazione e con essa i luoghi comuni. Chi si toglie la vita è un vigliacco, un perdente, uno stupido. Siamo poco indulgenti anche con chi si suicida perché vessato dallo Stato. E se il suicida fosse solo un essere umano che non vede altra via d’uscita? Quante persone, come Robin Williams, decidono di farla finita perché la depressione ha tolto loro il discernimento o il dolore ha reso ciechi? Che diritto abbiamo di giudicare chi si arrende alla vita senza condizioni? Perché di questo si tratta, di una resa incondizionata. Ci si suicida perché non si vedono soluzioni o vie d’uscita. È una colpa? È un affronto a Dio? Bè, l’Onnipotente ci ha donato la vita ma nel farlo non è stato imparziale. Ad alcuni ha offerto una vita in piano o addirittura in discesa. Ad altri, una vita terribilmente in salita. A tutti, ha offerto il libero arbitrio, quindi la facoltà di decidere cosa fare della propria esistenza. Anche quando e come concluderla? Non so, non ho certezze in merito. Ricordo una splendida frase di Edgar Lee Masters, la cui Antologia di Spoon River è, a mio parere, uno dei libri più belli che siano mai stati scritti. “A che serve sbarazzarsi del mondo quando nessun’anima mai sfugge al destino eterno della vita?”. Vorrei che i miei lettori, scossi dal suicidio di Robin Williams, indimenticabile interprete di ruoli straordinari, riflettessero su questa frase. E se il suicidio fosse solo un’interruzione momentanea? Le parole di Masters sono la chiave per comprendere il valore, positivo e negativo, di un atto estremo di fronte al quale non dovremmo indignarci né sentenziare ma solo provare una profonda, intensa compassione. Ogni volta che un essere umano si toglie la vita è come se ci dicesse con il cuore in gola: mi sono arreso, non ce la faccio più. Me ne assumo le responsabilità e spero di farcela a superare le mie prove, la prossima volta. Potrebbe capitare a chiunque, e soprattutto a chi si crede forte. Potrebbe avvenire per eccesso di viltà o eroismo, per stanchezza o disgusto, a causa del dolore fisico o psichico. Bisogna amarsi molto per suicidarsi, ha scritto Albert Camus. E se fosse vero il contrario? Se la nostra vita diventasse improvvisamente insopportabile e smettessimo di essere amati e amare noi stessi? La cosa migliore che dobbiamo augurarci è di non trovarci mai nella condizione di arrenderci per quanto vorremmo continuare a lottare. Salvo credere che avremo una possibilità di riscatto.
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