di Iannozzi Giuseppe
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Racconti di giganti e nani - di Iannozzi Giuseppe
Presto me ne sono reso conto: i grandi mali dell’uomo derivano tutti dall’amore. Vi sembra strano? A me no. Sono invecchiato e ho consumato tanti anni e tante donne: ormai non m’attendo più nulla dalla vita, solo che la vita ponga termine a sé stessa. D’altronde un uomo come me, ormai vecchio, con la memoria labile, non ha proprio più niente da elargire a chicchessia nel nome dell’amore. Ottanta anni non sono pochi. Dunque, dicevo che l’uomo rovina sé stesso nel ricordo del primo amore, in quell’amore che l’ha contagiato quand’era giovane: quando si è ventenni o giù di lì; dopo la prima scopata, capita a tutti d’incontrare un amore folle, una ragazza che è ben più d’una scopata e via. E’ stato così anche per me: ho incontrato anch’io una femmina che m’ha fatto impazzire. E anch’io sono stato lasciato da lei ma non dalla sua pazzia… dalla mia pazzia. E per vendicarmi, tutte le donne che dopo di lei ho avuto le ho trattate coi guanti bianchi, ma solo per schiaffeggiarle senza che loro se ne rendessero conto. Però non è del tutto vero: ad un certo punto, alla fine, i nodi vengono al pettine, tutti – quando stai insieme a una donna, quando la tratti fintamente bene. Non avete capito? Perdonate la demenza di questo vecchio, ma è il meglio che so fare e poco mi curo dello stile; e se questi pensieri vi sembrano il vaneggiamento incoerente d’un pazzo annoiato, forse non avete tutti i torti. Però, lo stesso io vi invito, con insistenza, a non lasciare vagare altrove i vostri occhi: continuate a leggere, poi, forse, anche voi comprenderete il significato estremo che le mie parole racchiudono oltre le parole, oltre quello che ora voi dite ‘vaneggiamento’.
Ero giovane e arrogante, sicuro di me stesso. Lei era bella e non mi fu difficile amarla per la sua bellezza; poi la sua pazzia rapì la mia – la mia pazzia -, e in lei essa diventò necessità di tenerezza. Ero in trappola, troppo innamorato e tenero perché potessi rendermene conto. I giorni trascorrevano veloci e ogni dì era una primavera anche se fuori era la tempesta a imperversare.
Tra gli alti pioppi c’incontravamo, fra quelle fronde ci nascondevamo al mondo e mentre lo stormire del vento cantava per noi tra le foglie una melodia di magia, noi consumavamo ogni nostro ardore e lo mischiavamo subito all’eco delle foglie a tremolare sui rami. Si stava bene insieme ed erano tutti invidiosi di noi, proprio tutti, anche chi non ci conosceva e nulla sapeva di noi.
E poi tutto finì. Venne il giorno di Pasqua, e lei mi lasciò: solo come un cane rimasi a sedere sui gradini della chiesa e bestemmiavo e piangevo e ridevo. Ero il più disgraziato degli uomini, almeno così mi pensavo a quel tempo. Ero giovane e l’abbandono non l’avevo proprio contemplato. Non ci fu una vera ragione per cui mi lasciò, lo ammise lei stessa quando mi diede l’ultimo bacio. Solamente mi disse che ero un ragazzo dolcissimo, e addio; poi, quasi pentita d’avermi detto così poco, in un sussurro specificò che non m’avrebbe dimenticato mai e che ero stato il suo amore, quello più grande. I fatti, non molto più tardi, tradirono quelle poche parole che mi lasciò in eredità nell’addio, perché la vidi abbracciata ad un altro e nel giro di tre mesi sposata con l’abito bianco. La mia Cristina non era più mia, neanche nel sogno o nella fantasia, o nella tortura dei miei pensieri di pensarla ancora mia nonostante tutto. Mi lasciò e cadeva proprio il giorno di Pasqua: osservai uomini e donne felici uscire dalla chiesa passandomi accanto, senza degnarmi d’un solo sguardo. Le mie lacrime non commuovevano proprio nessuno, e neppure le mie bestemmie: era come se a tutti fossi invisibile, per tutti non avevo neanche la consistenza d’un’ombra. Rimasi seduto sui gradini della chiesa. Poi scese il crepuscolo, e a quel punto ogni mia residua – vana – speranza s’era completamente dissanguata; non avevo neanche più la forza di piangere o bestemmiare contro la crudeltà di Dio che per me aveva preparato un così triste giorno.
Per distrarmi da me stesso mi gettai in politica: fui anarchico e socialista, comunista e nazionalista, e poi fui di nuovo anarchico e comunista, e con ogni partito ebbi a menar le mani. Fece presto il mio furore politico a stemperarsi e, alla fine, la mia bandiera fu la più totale indifferenza per ogni cosa che m’invitava a stare a destra o a sinistra o al centro o nel niente. Tornai a guardarmi intorno per un nuovo amore. E lo trovai e lo modellai su Cristina: la mia nuova compagna era forse la più bella del Paese, però io sempre avevo in testa lei e solo lei, Cristina. La trattai coi guanti bianchi Maddalena, e dopo un anno che restammo insieme, Maddalena m’allungò un ceffone con le lacrime agli occhi. Ci lasciammo, ma non provai alcun dolore. Ero tremendamente felice d’averla fatta soffrire. Seguirono molte altre ragazze nel mio letto, e una divenne mia moglie: due anni insieme e divenne la mia ex. E anche questa volta non provai alcun dolore. Mi risposai subito, con un bionda mozzafiato che non parlava affatto la nostra lingua: la incontrai e l’amai per la sua bellezza e solo per quella la volli tutta per me. Mi amò profondamente, visceralmente, mentre tentava d’imparare l’italiano, una lingua assurda per lei che era norvegese. Quando m’accorsi che di me non poteva più fare a meno, così, su due piedi, crudelmente, le dissi che non l’amavo più. E lei capì. Si tagliò le vene. Andai al suo funerale e nei miei occhi neanche l’ombra d’una lacrima.
Gli anni Sessanta furono assai turbolenti ed ebbi solamente donne o profondamente ricche o squattrinate, ma per una notte o due, non una di più. Durante gli anni Settanta incontrai Cristina: era più vecchia di quando mi disse addio, ma io vedevo ancora in lei sempre la mia Cristina, per me era bellissima e di più. Non m’accorsi che sul suo volto c’era già l’ombra della grande falciatrice. A metà degli anni Settanta, un amico mi comunicò, non senza un certo imbarazzo, che Cristina era morta lasciando due figlie e un marito disperato. Non piansi. Ringraziai l’amico, gli strinsi la mano, e tornai ai miei affari: raccolsi da terra una cartella con delle carte e in quel preciso momento compresi che ero morto, che io ero morto completamente, più di Cristina che ormai giaceva in decomposizione nel ventre della fredda terra. E piansi cadendo in ginocchio. Piansi fino a consumarmi. Fu terribile. Lasciai morire ogni mio affare, e per mesi non uscii di casa. Tornai a vivere, ma non ero più io. E tornai anche a incontrare donne e ad andarci a letto. Mi sposai un’altra volta: due giorni dopo le nozze eravamo già ai ferri corti, e passata che fu una settimana, ecco il divorzio.
E la incontro: camminavo ed eccola di fronte a me. Era lei. Non avevo alcun dubbio in merito. Era Cristina, la mia unica e sola Cristina. Ed era giovane, giovane proprio come in quel lontano giorno in cui mi disse addio. Il cuore, tanta fu l’emozione, mi si fermò in petto per almeno due battiti. L’avvicinai. Non c’era dubbio alcuno che fosse la mia Cristina. Le sorrisi, levandomi il cappello, lasciando libera la folta brizzolata zazzera di spettinarsi al vento. E lei scoppiò a ridermi in faccia. Rideva di me. Non ebbi il coraggio di dirle niente: rimasi semplicemente imbambolato davanti a lei che rideva e rideva. Ma ero felice: la sua risata, anche se di profondo scherno, mi fece felice, folle, folle come quando fui giovane. Poi si allontanò, ed io rimasi ad ammirarla in lontananza.
M’informai sul suo conto e scoprii che era la figlia, la prima e la più grande, della mia Cristina. E pure lei si chiamava Cristina. La volevo. Avrei dannato l’anima all’inferno pur di averla. Cominciai a frequentare tutti quei posti dove lei amava recarsi, e dopo due anni di inutile corteggiamento, finalmente s’accorse di me e mi rivolse la parola: “Io so chi è Lei. So tutto di Lei. Se ne vada via per sempre, per sempre dalla mia vita. Addio.” Morii un’altra volta.
Oggi sono qui: Cristina, la figlia della mia Cristina, ha una sua famiglia, è felice e in buona salute. E io sono vecchio e solo. La domestica mi disprezza profondamente, ma non può fare a meno dei miei soldi e non può permettersi un lavoro diverso non avendo né istruzione né intelligenza dalla sua.
Oggi è Pasqua e spero solamente che Dio abbia un minimo di misericordia, spero che mi sbatta all’Inferno o in Paradiso: per me non farà alcuna differenza. Dovunque andrò a finire, per me non ci sarà mai pace. Anche se so che Paradiso e Inferno non esistono, dovunque andrò, io non avrò mai pace. Finirò sotto due metri di terra e basta? Sarò senza più né un’anima né un cuore in petto? Bene, io non avrò pace, non ce l’avrò mai, perché sono già morto… sono morto nel suo addio. Questo lo potete capire anche voi, adesso. Sono il più disgraziato degli uomini, così mi penso ancor oggi; e almeno in questo sono stato onesto con me stesso.