A tre anni dal primo brillante capitolo Sony, arriva sugli schermi il secondo lungometraggio d’animazione del regista statunitense di origini russe Genndy Tartakovsky, lezione esemplare su come si possa superare la cosiddetta “sindrome del numero due”, che non di rado riesce a trascinare nel baratro i più diversi progetti interessati da un incipit fortunato.
“Hotel Transylvania 2” si pone con tale disinvoltura da essere in grado di rimescolare le carte vincenti del predecessore, senza per questo risultarne essenzialmente debitore: possiede infatti una propria autonomia, un proprio sviluppo originale che accompagna i personaggi in un naturale processo di mutamento muovendo dagli stadi già raggiunti.
L’umano Jonathan e l’unigenita figlia di Dracula, Mavis, si sono sposati e hanno procreato, dando alla luce per la gioia somma di “nonno Drac” un figlio maschio, l’adorabile Dennis/Denisovich (nome prediletto dal conte). La questione che si pone è duplice: da un lato la scelta dell’ambiente migliore per la crescita del pargolo rossiccio (la società degli uomini o il piccolo universo dell’hotel?), dall’altro la sua predisposizione o meno all’essere un vampiro. Così, mentre la giovane coppia si concede un viaggio di riflessione, Dracula fa di tutto per dotare il suo amatissimo nipotino di due aguzzi canini.
Nell’ardua missione milita la storica masnada che aveva animato con simpatico impeto le vicende di “Hotel Transylvania”, resa contestualmente ancora più memorabile: ecco quindi Frankenstein, il lupo mannaro Wayne, la corpulenta mummia Murray, l’invisibile Griffin, cui si aggiunge con deliziosa discrezione la montagna di gelatina verdastra Blobby.
Il fil rouge che lega ognuno di loro è l’ormai svanita capacità di operare “secondo natura”: a nessuno viene più spontaneo spaventare, i tempi sono cambiati, il terrore lascia gentilmente carta bianca allo spasso, le due stirpi una volta rivali ora convivono, tessono fra loro relazioni sempre più intime.
Qui si coglie lo straordinario contributo sociologico del film di Tartakosky: si è di fronte ad un ritratto caricaturale del panorama tecnologico e culturale contemporaneo di efficacia folgorante, in cui le gag demenziali di sandleriana paternità ospitano, senza forzature o malcelate intenzioni programmatiche, una girandola di omaggi alle realtà digitali del terzo millennio (come la spiazzante tempestività delle videochiamate e di YouTube, o anche semplicemente il Vaio e l’applicazione di Facebook utilizzati dagli zombie nella reception), o di poco anteriori (le pillole metacinematografiche in memoria di “Frankenstein Junior” e “Il fantasma dell’Opera”).
Una schiettezza tanto spiccata caratterizza anche l’immancabile sfumatura moraleggiante. Dalla delicata rappresentazione della gestazione si origina un’emblematica divergenza di punti di vista sul futuro della prole: il divario generazionale unitamente ai sogni ad occhi aperti nutriti dai familiari in età più avanzata concorrono ad una viziata interpretazione delle influenze che possano rivelarsi autenticamente positive per Dennis, il quale al contempo non sembra aver bisogno né di pupazzi che demistifichino la mostruosità delle specie che lo circondano, né di addestramenti che con una certa presunzione vorrebbero riaffermare il (supposto) stato delle cose.
L’esposizione narrativa, di nuovo, è connotata da un coraggio non rinvenibile con simile facilità in altre produzioni animate, anche in virtù della singolare forma di equilibrio che il regista riesce a doppiare, impedendo l’identificazione di un baricentro prevedibile ed inequivocabile: scelta stilistica che indubbiamente gioca a favore del ritmo ed esalta le comicissime doti plastiche di ogni figura, al di là di ogni verisimiglianza e cervellotica pedanteria neorealista.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni