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Il Taccuino del giovane cinefilo presenta “Inside Out”, di Pete Docter e Ronnie del Carmen

Creato il 30 settembre 2015 da Alessiamocci

Che potrà mai succedere ad una comune bambina di 11 anni che dal Minnesota si trasferisce con mamma e papà a San Francisco? E quali misteriose dinamiche si possono avviare nella sua mente, arena di fenomeni contrastanti specialmente in un momento così sensibile della sua crescita?

Sono quesiti come questi che la Pixar intende soddisfare con “Inside Out”, dopo un anno di assenza strategica dai cinema di tutto il mondo, dopo aver raccontato con leggendaria passione storie di giocattoli, insetti, mostri, pesci, supereroi, automobili, topi, robot, anziani scorbutici e principesse ribelli.

Pete Docter, già in cabina di regia con “Monsters & Co.” (2001) e “Up” (2009), è senza dubbio alla ricerca del suo secondo Oscar, dopo quello vinto nel 2010, assieme al compagno di squadra Ronnie del Carmen. E per ottenerlo presenta un prodotto non solo di eccellente fattura, ma autenticamente illuminato di genialità.

È risaputo che con ogni nuova opera lo studio di Emeryville (California) miri a superarsi, si voglia nell’aspetto tecnico come in quello prettamente narrativo. Ebbene, il 15° capitolo di questo processo in continuo sviluppo, a vent’anni dall’indimenticabile capostipite (“Toy Story”, 1995), si presenta fin da subito come una vittoria da albo d’oro.

La ricchezza straordinaria di cui si ammanta è il frutto di un’armonia fra le diverse componenti perfettamente congeniata. La mente di Riley Anderson è ciò che i soggettisti Pixar hanno deciso di conservare delle lezioni degli specialisti interpellati, oltre che delle tradizioni fondate da studiosi del presente e del passato, giungendo ad un paradigma di semplice e immediata comprensione, ma tutt’altro che riduttivo, a dispetto delle opinioni di chi non apprezza lo sforzo di approntare uno spettacolo sfavillante che rinunci all’attrattiva di scorciatoie o indigesti cliché, fruibile da un pubblico largamente eterogeneo: “il genio è un uomo capace di dire cose profonde in modo semplice”, diceva Bukowski.

La mente umana non è forse da secoli immaginata come un vertice di controllo di tutte le azioni corporee? Stava poi al gusto e all’estetica della contemporaneità creare una rappresentazione figurativa (che ha richiesto, si badi, anni di lavoro) atta a descrivere con tale immediatezza le diverse e più importanti aree, come le isole della personalità, gli archivi della memoria a lungo termine, la fabbrica dei sogni, lo stabilimento del pensiero astratto, la grotta del subconscio, il baratro dei ricordi sbiaditi. Ricorrendo all’attualissimo Freud, possiamo affermare di essere di fronte ad una “topica” (ossia ad “un modo di dare corpo e disporre nello spazio certi rapporti e certe relazioni”) riuscitissima, non meno valida di altri modelli.

Nella centrale di comando operano 5 emozioni, residuo delle 27 prese in considerazione, e ritenute lecitamente essenziali alla decodifica del reale e indubbiamente anelli di più salda congiunzione a favore del plot. Le personalità di cui ognuna di esse viene dotata costituiscono un vero saggio di bravura sullo studio della psicologia nella settima arte: descritte in modo fulminante sia esteticamente (al di là del loro antropomorfismo si possono immaginare una stella, una lacrima, una fiamma, un nervo scoperto e un broccolo, tutti dai grandi occhi colmi di espressività), sia caratterialmente, lungi dall’incappare nel prevedibile o, peggio ancora, nell’abbozzato.

Ogni decisione presa “dal di dentro” corrisponde ad un ben chiaro e distinto risultato esteriore, a sua volta preceduto e seguito da avvenimenti esterni che sovente creano un vero guazzabuglio dietro la levigata consolle. Essa è il fulcro motore di tutta la vicenda, nella quale non è riscontrabile con scontata facilità un climax di tensione ascendente culminante con un indiscutibile evento chiave.

Le logiche della trama impongono inevitabilmente un punto nodale finale, peraltro esposto con sentita naturalezza e privo di stucchevole retorica, ma la vera sorpresa la si può trovare lungo tutto il corso del lungometraggio, nel dipanarsi di accadimenti di per sé non eccezionali (l’esistenza di Riley è del tutto plausibile), ma portati sullo schermo con inarrestabile freschezza, nella costante presenza di inserti umoristici di matura efficacia (il sarcasmo e le vampate di Rabbia sono impagabili), nella scelta di proporre episodi di profondo e toccante altruismo (come quello di cui si rende protagonista il buffo amico immaginario Bing Bong, accompagnato da un montaggio che ospita un inaspettato long take, di ben rara apparizione in una produzione animata mainstream), nel testimoniare come un personaggio fondamentale possa conoscere l’ingenuità.

Come non citare a questo segno lo straordinario “prospetto emotivo” di Tristezza, a buon diritto inseribile nell’Olimpo dei caratteri più compiuti della storia dell’animazione moderna? In essa si concentrano tutti i binari significanti del film, cui interessa approfondire il problematico dualismo con l’a tratti esasperante Gioia, che incarna una certa diffusa tendenza alla promozione di una vita sempre in tensione (per quanto splendente e smagliante) e dal profilo positivo.

La Pixar mostra, per la prima volta in modo così radicale, come si debba imparare a convivere con la malinconia, che anno dopo anno si impossessa inevitabilmente di ogni patrimonio personale, sovrapponendo i lucciconi ai sorrisi.

Ad ogni età si può giovare dei benefici (culturali e medici) derivanti da “Inside Out”: non si è mai troppo distanti dai gusti dei più piccoli né tantomeno da quelli dei più grandi. A titolo esemplificativo, è un fatto indubbio, ma assolutamente non un neo, che l’eterea manifestazione del prologo e della duplice nascita della bambina e della prima emozione, coperta da un delicatissimo strato di peluria, con la voce aggiunta della stupenda colonna sonora di Michael Giacchino, a pieno titolo autrice di senso all’interno della forma ospitante, sia maggiormente apprezzabile da un pubblico adulto, così come viceversa lo sono per gli infanti le portate più facilmente digeribili delle diverse anime del cartone.

“Inside Out” è quindi di un capolavoro? Per l’autorità con cui si pone nel panorama culturale mondiale, per i linguaggi e le modalità con cui si rivolge ai suoi pubblici, per l’entusiastica inventiva nella grafica, nella fabula e nell’intreccio, per l’emblematico profilo etico di cui si prende carico con risolutezza e coraggio, per il brillante equilibrio di tutte le sue parti, sì, lo è.

Voto al film

Written by  Raffaele Lazzaroni


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