
Oggi vogliamo parlare ad esempio di una sindrome che non ha niente a che vedere con le paure o i disturbi comportamentali, ma andrebbe definita piuttosto una prospettiva diversa di vivere la città. Tale è quella che viene chiamata la sindrome di Herman Hesse, o meglio, quella sindrome che appena arrivati in una città nuova, fa strappare in pezzettini le cartine turistiche per prediligere invece un’immersione nella città, tra i quartieri popolari, la gente indigena e il cibo locale, proprio come aveva fatto l’autore Hesse in visita a Firenze nella primavera del 1901.

Noi, figli della fast-culture, che spesso pretendiamo di conoscere una città in quei pochi giorni di vacanza che abbiamo a disposizione, dividendoci tra piazze, musei, chiese e autobus, raccogliamo in ogni posto pugni di sabbia che niente lasciano alla memoria se non lo stato d’ansia che ci domina per tutto il tempo. Tanto che molti particolari li riusciamo a notare solamente una volta tornati a casa, dalle foto digitali, che oggi egregiamente sostituiscono le cartoline postali. E poi ci viene la sindrome di Stendhal, quando visitiamo i musei, dopo averli assaliti, dopo un panino al fast-food e un viaggio in metro, perché quando si va in città i mezzi pubblici sono più veloci e meno faticosi, anche a costo di stare accalcati in uno spazio chiuso e ristretto. La sindrome di Stendhal ci viene perché un altare ci apre lo sguardo sul trascendentale, e un quadro sull’infinito, senza pillole contro il fuso orario. Tanto che lo stesso Hesse ci fa sapere “Quando si esce dagli Uffizi è consigliabile aspettare un po’ sotto i portici, finché gli occhi non si abituano alla luce ed alla vita della strada, altrimenti in Piazza Signoria, incessantemente animata, con sicurezza qualcuno c’investirà…”».

“ Le persone si sentono obbligate a visitare i musei perché hanno imparato da piccole che viaggiare significa cercare questo tipo di cultura. E' chiaro che i musei sono importanti, ma richiedono tempo e oggettività; dovete sapere cosa volete vedere o uscirete con l'impressione di aver visto una quantità di cose fondamentali per la vostra vita, ma che non ricordate. Frequentate i bar. Qui, al contrario dei musei, si manifesta la vita della città. (...)Comprate un giornale e lasciatevi stare a contemplare il viavai. Se qualcuno attacca bottone, per quanto stupido vi sembri, dategli retta: non si può giudicare la bellezza di una strada guardandola solo dall'inizio”.
Io a Firenze ho vissuto quattro anni e ad ogni passeggiata lungo l’Arno o per le vie del centro, ho sentito le mie difese rompersi alla forza della pregnanza artistica. Questa fragilità l'ho avvertita anche a Roma nella basilica di San Pietro, a Verona davanti all’Arena, a Parigi sotto la Torre Eiffel, a Tunisi, a Valencia e in tutte le città che ho visitato. Questa fragilità che ci coglie ad ogni scoperta e che ci spacciano come sintomo di una malattia, altro non è se non il piacere della scoperta. E sono le stesse vertigini che dovrebbero farci gridare, come aveva fatto tanti anni fa Herman Hesse: “Voglio vivere la città”.