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Il tassista

Creato il 10 novembre 2015 da Speradisole

IL TASSISTA

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Faccio il tassista. I passeggeri salgono, si siedono vicino a me in un totale anonimato, e mi parlano della loro vita.

Ho incontrato persone la cui vita mi stupiva, mi rendeva migliore, mi faceva sorridere o mi deprimeva. Nessuna però mi commosse tanto quanto la donna che salì una notte di agosto.

Avevo risposto ad una chiamata presso alcune villette tranquille. Credevo che avrei raccolto qualcuno che usciva da una festa, o qualcuna che aveva avuto una discussione con il fidanzato o un lavoratore che avrebbe dovuto recarsi presto al lavoro presso una zona industriale della città.

Quando giunsi verso le 2.30 a.m., la casa era buia tolta una luce dalla finestra del primo piano. In queste circostanze molti tassisti fanno suonare una o due volte il clacson, attendono un munito, e poi se ne vanno.

Io però conosco alcune persone povere che dipendono dal taxi come unico mezzo di trasporto in certi casi.

La situazione mi appariva incerta, ed io andai fino alla porta e bussai.

«Un minuto» mi rispose una voce fragile. Sentivo qualcosa che veniva trascinato sul pavimento e dopo una lunga pausa, la porta si aprì.

Una piccola donna di circa ottant’anni comparve davanti ame. In mano una piccola valigia di nylon. Nell’appartamento tutti i mobili erano coperti con fodere, non c’erano orologi alle pareti, nessun soprammobile o utensile. In un angolo c’era una scatola di cartone piena di fotografie e una vetrinetta.

Continuava a ringraziarmi per la mia gentilezza.

«Non è niente, le dissi. Io voglio trattare i miei passeggeri come vorrei che fosse trattata mia madre».

«Oh, sono sicura che lei è un buon figliolo».

Quando giungemmo al taxi mi diede un indirizzo, poi chiese:

«Potrebbe passare dal centro?»

«Non è la via più breve» le risposi rapidamente.

«Oh, non importa» disse lei. «Non ho fretta, vado alla casa di riposo».

La guardai nello specchio retrovisore, i suoi occhi lacrimavano.

«Non ho famiglia» continuò «il dottore dice che non mi rimane molto tempo».

Tranquillamente allungai la mano e spensi il tassametro. Per due ore guidai in giro per la città. Ella mi indicò lo stabilimento in cui aveva lavorato come operatrice di ascensori. Poi dove lei e suo marito erano vissuti quando erano sposati da poco. Mi chiese di passare davanti a un negozio di mobili dove una volta c’era una sala da ballo, e lei andava a ballare da ragazza. A volte mi diceva di passare lentamente davanti ad un edificio particolare o ad angolo buio e non diceva niente.

Appena appariva all’orizzonte il primo raggio di sole, ella disse subito: «Sono stanca, andiamo adesso».

Rimase in silenzio fino al luogo che mi aveva indicato.

Due infermieri vennero verso il taxi il più velocemente possibile. Erano molto gentili, e vigilavano ogni sua mossa. Probabilmente la stavano attendendo. Ho aperto il bagagliaio ed ho portato la valigetta fino alla porta. La donna stava seduta su una sedia a rotelle.

«Quanto le devo?» chiese, frugando nella sua borsa.

«Niente» le dissi.

«Dovete vivere di qualcosa» rispose.

«Avrò altri clienti» affermai.

Così, senza pensarci, mi chinai e l’abbracciai.

Ella mi corrispose con forza e disse: «Avevo proprio bisogno di un abbraccio!».

Mi strinse la mano, poi si avviò verso la luce mattutina. Dietro a me una porta si chiuse. Era il suono di una vita conclusa. Non accettai altri clienti in quel turno, e guidai senza meta per il resto del giorno.

Ad uno sguardo veloce, credo di non aver fatto niente di più importante nella mia vita.



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