Non sono pochi i testi, novecenteschi e non, che hanno esplorato tentativi di ontologia del teatro, provandosi nel difficile compito di rendere conto di un meta-discorso, la riflessione, appunto, mentre si fa un discorso, il testo. Non poche volte i confini, nemmeno così angusti, poi, dell’arte teatrale in quanto tale, sono stati forzati. Il teatrante, testo del 1984 dell’austriaco Thomas Bernhard, rappresentato per la prima volta nel 1985, è un manifesto dell’impossibilità di compilare manifesti. Quale giubilo, dunque, nel vederlo rappresentato, con la produzione di CTB Teatro Stabile di Brescia, e Teatro de Gli Incamminati, e la regia, preziosa e competente, di Franco Branciaroli, allo Stabile etneo. Lo spettacolo, in scena presso il Teatro Verga, dal 14 al 19 gennaio, è un magnifico esempio, una volta per tutte, di teatro colto e divertente allo stesso tempo, elevato, metafisico, e popolare, nel senso più genuino del termine; e, in terra catanese, di esempi del genere, non se ne vedevano da un poco di tempo.
Nell’opera di Bernhard vengono a coagulazione tanto Pirandello (citato, ironicamente, più di una volta) quanto Schopenhauer; e, seppure in maniera sotterranea, Beckett e Pinter. La messa in scena, anche se improponibile sin dalle premesse, da parte di Bruscon (Franco Branciaroli) autore-attore, di uno spettacolo, La ruota della storia, in cui fra i personaggi troviamo Metternich, Hitler, Churchill, fa muovere i personaggi come su una scacchiera. E tanto più irrealistiche sono le premesse di questo tentativo di drammaturgia-nella-drammaturgia, quanto più esilaranti risultano i “numeri” che costituiscono il testo. Ché, in fondo, di numeri comici, in linea con la migliore tradizione che corre dalla Commedia dell’Arte fino a Scimone e Sframeli, si tratta, anche se messi in ordine e “in forma”, miracolosamente, in una struttura narrativa ai limiti della perfezione. In ciò non risiede alcun danno, anzi è vero il contrario. L’episodicità, la frammentarietà, del testo, sono cifre distintive e precise indicazioni, che Branciaroli attore sa sfruttare con tempi comici collaudatissimi, senza facili ricerche dell’applauso (cosa che, invece, accade molto più spesso).
Sulla scacchiera di cui sopra, la bella scena di Margherita Palli, ad essere messi sotto scacco sono i familiari-compagni attori di Bruscon, la moglie (Melania Giglio) e i due figli Ferruccio e Sarah, soprattutto questi ultimi (interpretati da Tommaso Cardarelli e Valentina Violo), coi loro “ruoli”, sempre in bilico fra l’essere attrezzisti e macchinisti e il provare a “diventare attori”, attraverso esercizi di dizione e prove di interpretazione. La moglie, poi, si esprime solo a colpi di tosse (e quanto ci ricorda i celebri “malati” di Beckett, in Aspettando Godot e Finale di partita, tra gli altri). Bruscon è una sorta di deus ex machina preventivo, tutto intento in un vaniloquio interminato che spazia dalla stracciatella all’acqua minerale, dall’arte drammatica alla scarsa sensibilità del sesso femminile. Franco Branciaroli, in questo senso, è interprete fenomenale, dai mille sottintesi, spavaldo, claudicante, tenero e feroce. La sua opera “totale” è talmente al di là di ogni possibilità concreta di realizzazione, da entrare a pieno titolo, anche se in-finita, nel novero delle grandi opere-mondo del nostro tempo, da Infinite Jest a 2666, da Perec fino al Karl Kraus de Gli ultimi giorni dell’umanità, agli spettacoli danteschi di Federico Tiezzi e all’Orlando furioso ronconiano.
La regia è scandita con rigore, precisissima, fulminante quando serve; e, al di là del mattatore-Branciaroli, anche il resto del cast trova piena ragione di esistere (divertente oltre ogni cosa il passaggio in cui Ferruccio si trova alle prese con la battuta «Ciò che è stato, ciò che continuamente è stato»). Il teatrante ha, dunque, grande valore; sia di per sé, come corposa riflessione su «questi fantasmi» che agitano il fare teatro, e la conseguente, irriducibile, forza generatrice della scena, per cui l’arte drammatica (teniamo presente l’etimologia) non può che essere tale e solo tale, e proprio in quanto tale, essere solo altro da sé. Ma anche valore di piacevole intrattenimento; se un qualche docere et delectare può ancora costruire senso, ed essere esatto.
Fotografie di Umberto Favretto