Nel 1959, al ventiseienne Jerzy Grotowski, reduce da una specializzazione in regia all’Istituto d’Arte Teatrale di Mosca, nel segno della grande tradizione di ricerca russa di Stanislavskij, Mejerchol’d e Vacthangov, e da un promettente esordio registico, venne affidata la direzione del Teatro delle Tredici File di Opole, in collaborazione con Ludwik Flaszen, suo consulente letterario. Nei primi anni, Grotowski si distinse per la versatilità delle tematiche e dei riferimenti letterari, passando dall’avanguardia contemporanea di Majakowskij e Cocteau, al romanticismo di Byron, al classici polacchi come Mickiewicz e alla mitologia indiana del Sakuntala. Il giovane regista rivelò una particolare attenzione al lavoro dell’attore e alle soluzioni registiche innovative, pur rimanendo ancorato alla tradizione nel rapporto della messa in scena teatrale con il pubblico e con la drammaturgia.
Dal 1962, Grotowski iniziò un radicale ripensamento della messa in scena, accompagnato da un meticoloso approfondimento sul lavoro dell’attore. La divisione netta tra scena e pubblico nello spazio teatrale venne rigettata, a favore di soluzioni logistiche variabili in funzione delle caratteristiche specifiche di ogni rappresentazione e del luogo in cui avvenivano. Per Grotowski, il teatro non doveva inseguire il cinema con offerte di intrattenimento in grado di fronteggiarne lo strapotere, ma piuttosto proporre un coinvolgimento più profondo degli spettatori. L’attore doveva essere il veicolo per questo coinvolgimento; la base di partenza della sua preparazione era il rigetto di tutti i cliché e le convenzioni del tradizionale approccio attoriale (via negativa). Una volta liberatosi dai trucchi del mestiere, l’attore nuovo doveva compiere un viaggio interiore alla ricerca delle fonti delle emozioni, per trovare l’autenticità da cui far scaturire spontanemente l’azione teatrale. In questo percorso, l’attore veniva accompagnato da una robusta preparazione del corpo, della voce e della respirazione, una vera e propria materializzazione dell’Atletica degli affetti e del Geroglifico del soffio teorizzati da Artaud (Grotowski fu sempre reticente nel riconoscere la sua ascendenza da Artaud, riconducendo il suo metodo in continuità con la ricerca russa, Stanislavskij in primis, ma buona parte della critica vide nel suo lavoro la più compiuta realizzazione delle teorie del francese).
Un processo simile di sfrondamento di tutto il superfluo avvenne per la scenografia e per i costumi, ridotti all’essenzialità. Gli attori si presentavano in scena coperti da lenzuoli o da misere vesti di juta o di canapa, a sottolineare la santità laica della loro opera. La scenografia si riduceva a praticabili ottenuti con casse e assi di legno e altri materiali riciclati. La povertà del teatro grotowskiano, oltre a rispondere alla penuria di fondi a disposizione, soddisfaceva a una necessità poetica ed evitava che il pubblico venisse distratto dalla decoratività scenografica, favorendone il coinvolgimento nell’azione portata avanti dagli attori. Il teatro delle tredici file venne ribattezzato Teatro Laboratorio, a sottolineare la centralità del lavoro artigianale e la mancanza di soluzione di continuità tra le prove e l’esito scenico. Gli attori di Grotowski (tra gli altri, Ryszard Cieslak e Rena Mirecka) affrontavano il loro quotidiano lavoro non come preparazione al confronto col pubblico, ma come un percorso di conoscenza in cui l’esito scenico non era la finalità ultima e definitiva, ma una tappa come le altre. Dal 1965 il Teatro Laboratorio si trasferì a Wroclaw.
Negli anni dal 1962 al 1968 (anno in cui fu pubblicato il manifesto e compendio Per un teatro povero, raccolta di scritti di Jerzy Grotowski curata dall’Odin Teatret di Eugenio Barba) vennero alla luce numerosi spettacoli, destinati a segnare profondamente gli sviluppi futuri del teatro. I riferimenti letterari non vennero più adattati o ridotti per il teatro, ma distillati nella scrittura scenica, in modo che gli attori non fossero più al servizio della parola, ma quest’ultima al servizio dell’azione scenica. Dal Kordian e dall’Akropolys del 1962 all’Apocalypsis cum figuris del 1968, passando per il Faustus (1965), lo Studio sull’Amleto (1964) e Il principe costante (1965), Grotowski e i suoi collaboratori vissero una delle più intense ed influenti esperienze teatrali del novecento, sondando i più profondi abissi dell’animo umano e indagando sul potere e i suoi rapporti contraddittori con la giustizia e la violenza, sulla perdita e la ricerca di senso nella società contemporanea, sulla rettitudine e la dissolutezza, sul martirio e sul massacro.
All’inizio degli anni settanta, dopo aver portato il lavoro del Teatro Laboratorio in ogni angolo del mondo, Jerzy Grotowski smise di produrre spettacoli e si dedicò alla didattica e alla ricerca parateatrale, non più rivolta a soli professionisti, conducendo seminari e laboratori in giro per il mondo. A seguito dell’appesantimento del clima politico in Polonia, il regista si trasferì dapprima negli Stati Uniti, poi in Francia e infine in Italia, a Pontedera, dove nel 1986 fondò il Workcenter e visse i suoi ultimi tredici anni di vita.