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Non so voi, ma a me le idee migliori vengono alla mente quando mi trovo sdraiato al buio tra il sonno e la veglia, consapevole che se dovessi allungare la mano al block notes sul comodino per metterle su carta svanirebbero all’istante come neve al sole. A Max Cohen, invece, le idee vengono standosene chiuso nel suo claustrofobico monolocale a fissare lo schermo del computer e a battere sui tasti. Il film di Aronofsky è in gran parte una lunga sequenza di immagini di un uomo che pensa e calcola algoritmi, oppure vaga senza meta come un’anima in pena, e nonostante questo è innegabilmente affascinante. Max, convinto che l’universo sia governato dai numeri, che esista uno schema generale che regoli tutte le cose, Max che cerca di prevedere l’andamento della Borsa (come già fece Ralph Nelson Elliott con la sua “teoria delle onde”), suscitando l’attenzione di un gruppo finanziario che vuole sfruttare il suo lavoro per fare speculazioni e di una comunità ebraica che setaccia la Torah alla ricerca del vero nome di Dio, è profondamente, fisicamente e mentalmente solo. Non sappiamo chi sia, oltre che un genio della matematica, né da dove provenga, sappiamo solo che non ha amici e non ha altro amore che la matematica, e l’unico legame umano che riesce a coltivare è con il suo maestro e mentore Sol, e anche questo rapporto deriva dalla matematica, è in funzione della matematica.
Sappiamo anche un’altra cosa, molto importante, ed è che fin da bambino, da quando divenne quasi cieco per aver fissato troppo a lungo il sole, Max soffre di terribili mal di testa. Man mano che il tempo passa questi peggiorano e arrivano le allucinazioni, arginate solo dal suo abuso di farmaci, come se il cervello di Max rifiutasse di comprendere la soluzione dell’enigma che gli si sta svelando.
“Pi greco…” è un’opera obiettivamente difficile da catalogare, in bilico com’è tra metafisica, psicologia e thriller. In molti l’hanno odiata e non riesco nemmeno a biasimarli: in gran parte girate con una SnorriCam o BodyCam, un particolare tipo di telecamera che si monta direttamente sul corpo dell’attore, le riprese risultano, più che dinamiche, frenetiche, enfatizzate da un bianco e nero ora sgranato, ora con bianchi troppo saturi, che feriscono l’occhio, mentre la colonna sonora techno (ennesima dissonanza importantissima) aumenta a dismisura il senso di vertigine.
Dall'inizio alla fine il film è strutturato come il dispiegarsi di un incubo (i sottesi freudiani degli insetti e degli spazi chiusi sono evidenti) la cui visione a tratti è una vera e propria tortura, e se non c’è dubbio che questa scelta registica sia perfetta per sottolineare la parabola discendente di Max, il risultato per lo spettatore è straniante. Posso dire, però, quello che secondo me questo film non è.
Non è la solita convenzionale descrizione della degradazione di una mente geniale nella follia, anzi trovo il paragone con “A beautiful mind”, il film di Ron Howard del 2001 sulla vita del matematico John Nash, abbastanza pretestuosa. Piuttosto potrebbe essere un ammonimento sulle ossessioni, su come queste ci portino a vedere sempre quello che vogliamo vedere e su fino a che punto il perseguirle a tutti i costi possa essere deleterio. Io però credo ci sia dell’altro.
La vera domanda sorge sul finale, quando Max arriva a ferirsi da solo. Perché lo fa? Perché sta diventando pazzo, o perché quello che ha scoperto è qualcosa di incommensurabile per la sua piccola, anche se geniale, mente? La risposta sembrerebbe ovvia, ma non lo è detto che lo sia.
Fin dall’inizio viene suggerito un parallelismo tra Max e il suo computer, che ad un certo punto comincia a generare una sequenza di numeri, la stessa che poi scoprirà Max, e poi smette di funzionare. La tesi di Sol è che alcuni procedimenti mandino i computer in una specie di loop che li porta al blocco totale, e che a quel punto le macchine diventino, in un certo senso, consapevoli. Prima di “crashare” il computer stampa una formula: Sol crede che si tratti di un virus, Max invece è convinto che si tratti della sua essenza, ovvero del suo schema strutturale, di una specie di porta o forse… di una chiave. È proprio vero che Max, come il suo computer, si autodistrugge perché è giunto al cortocircuito?
Prima di affrontare questo punto farei però un passo indietro e ricomincerei dal tema del film. L’accostamento di numerologia, Qaballah, borsa e gioco del Go alla matematica è molto interessante (anche quello con l’informatica lo è, anche se è più ovvio). E pazienza se la misteriosa costante in natura sia il Phi, il numero aureo, e non il Pi greco - quello del Pi greco è un concetto più immediato e comprensibile per le masse.
In fondo, questo poco importa: stiamo di fronte a concetti vecchi di millenni, non ad un’invenzione del regista (a parte il fatto che un film è intrattenimento e non deve per forza essere veritiero o “scientificamente dimostrabile”, neanche se il tema è la matematica. Perlomeno, questa è la mia opinione).
Se la definizione di Aureo nacque nel XV o nel XVI secolo e fu messa per iscritto nel XIX, il concetto in sé si può far risalire all’antico Egitto e sarebbe stato poi (ri)scoperto dalla scuola pitagorica attorno al IV secolo a.C.. Il numero aureo, il rapporto tra due lunghezze che esprime la sezione aurea, può essere ricavato dalla costruzione del rettangolo aureo. Quando nel XII-XIII secolo il concetto di sezione aurea tornò in auge, si rilevarono le sue proprietà di natura algebrica oltre che geometrica. Il matematico pisano Fibonacci (1170-1245) codificò la sequenza di numeri che prese il suo nome, in cui ogni numero è dato dalla somma dei due numeri precedenti (1-1-2-3-5-8-13-21 e così via, fino all’infinito); il numero aureo 1,618034ecc. si può esprimere anche come il rapporto costante tra un numero della serie di Fibonacci e quello che lo precede, anche se questa correlazione fu scoperta soltanto da Keplero secoli più tardi.
La serie di Fibonacci ricorre spesso in natura, sia nei micro che nei macrosistemi: nelle spirali dei semi del girasole, nella corteccia dell’ananas, negli schemi di crescita spiraliformi delle foglie delle piante; nelle conchiglie di alcuni molluschi, come il nautilus; nel ciclo riproduttivo di animali come i conigli e le api, se eventi esterni (come la morte di uno o più esemplari) non lo alterano… innaturalmente.
Noi siamo circondati da forme a spirale e viviamo in una spirale, la Via Lattea, e le distanze astronomiche nel sistema solare sono basate sulla proporzione aurea. L’universo stesso è un’immensa spirale. Le nostre impronte digitali sono spiraliformi, e le eliche del nostro stesso dna si avvolgono a spirale. Certamente potrebbe trattarsi solo di un'incredibile serie di coincidenze e non di un disegno divino, potrebbe essere che, per dirla con Sol, si tende a trovare sempre quello che si sta cercando... Non è necessario abbracciare il trascendente per accettare l'esistenza del numero aureo in natura. Tuttavia, gli artisti hanno sempre usato la proporzione aurea per rappresentare l’uomo e stabilire così i canoni della bellezza classica: le misure perfette sono quelle che corrispondono al numero aureo o che maggiormente gli si avvicinano. Come nell’Uomo Vitruviano di Leonardo, il cui volto si inserisce alla perfezione in un rettangolo aureo. Ma dove questo principio ha trovato la più ampia diffusione e risonanza è l’architettura, dalla piramide di Cheope al Partenone a Notre-Dame a Parigi, nel tentativo di donare alle opere dell’uomo le stesse armoniose proporzioni presenti nel creato.
A proposito di architettura… se Dio, il Grande Architetto dell’Universo, è associato al sole, e il sole è il simbolo principale della Kaballah ebraica, la mistica del numero quale principio generatore di tutte le cose, allora il nostro Max Cohen, il genio della matematica, lo sciamano del numero, chi è veramente? Max è il cohen ('כּוהן', kohèn), il sacerdote preposto alla mediazione dei rapporti con la divinità. Max però non ha mai creduto in Dio, non è puro. Proprio come un computer, è dominato dalla logica. Per questo, come profetizzato dal Rabbino, la matrice cosmica e divina che si sta svelando a (in) lui rischia di travolgerlo, di distruggerlo: i dolori di Max sono una metafora delle difficoltà del percorso iniziatico di cui ha saltato tutte le fasi intermedie - quelle che portano all’evoluzione dello spirito. Max non riesce ad evolversi, oppure ha paura di farlo, oppure ancora nel momento in cui apprende la verità si rende conto con sgomento che conoscere l'esistenza di uno schema generale non significa affatto riuscire a padroneggiarlo: così mentre lo schema tanto agognato si fa realtà, la sua mente viene travolta dal caos. È questo che ci sta dicendo il regista?
Per eliminare dalla sua mente una conoscenza dolorosa o inutile Max deve, in un certo senso, eliminare il suo stesso cervello? Quando si danneggia il cervello, Max non smette di parlare, però smette di comunicare, perché non è più in grado di elaborare concetti complessi. Bene, non si dice forse che il silenzio è d’oro? Non si tratta solo di saggezza popolare, ma di un concetto antichissimo che bene esprime la necessità di mantenere il più assoluto riserbo sui segreti iniziatici, appannaggio di pochi eletti. Lo sapeva bene Pitagora, che ne ha fatto il motto più importante della propria Accademia. Non solo, il silenzio purifica. Smettendo di parlare (comunicare), Max si libera dalle incombenze e dalle passioni quotidiane, ma anche dalla pressione della società, e così ritrova, o forse raggiunge per la prima volta (ma a che prezzo!), la vera libertà interiore. Max come sacerdote, un sacerdote per scelta. Potrebbe essere benissimo. Potrebbe.
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