Le immagini ontologiche del trauma. Giuseppe Genna, Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0, Roma, Minimum Fax, 2010
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di Giuseppe Panella*
E’ la terza volta che prendo in mano questo libro cult di Giuseppe Genna. La prima volta (nell’edizione PeQuod del 2001) l’ho soltanto sfogliato in una libreria (ben fornita) di Pisa; la seconda volta (nell’edizione Oscar Mondatori 2002) l’ho letto con molta attenzione; la terza volta, questa (edizione Minimum Fax 2010) ho preferito concentrarmi su alcuni punti dell’opera che mi sono sembrati i più significativi, i più discutibili (in senso positivo, s’intende).
Dal punto di vista strutturale, Assalto a un tempo devastato e vile è una raccolta di racconti autobiografici che, se da un lato affondano nel passato personale, privato dell’autore, dall’altro sono spaccati di vicende storico-politiche relative all’Italia intere e al suo tempo più “vile” che “devastato”. La prima versione del libro arriva a Ciò che resta (circa p. 154 dell’attuale edizione). La seconda termina con Questo è il martirio del Santo Me (circa p. 171 della Versione 3.0). Alla terza edizione sono state aggiunte molte pagine (da p. 172 a p. 323 facendo raddoppiare il testo di volume e di spessore). L’autore, oltretutto, aggiunge nella sua premessa iniziale al libro che si tratta di una versione non definitiva… Un libro non-finito, in-finito, in-de-finito e in-de-finibile, dunque.
Un oggetto letterario scritto e ri-finito nel tempo in attesa che prenda una forma precisa, assuma un taglio comprensibile e compreso nel tempo, diventa la meta finale di un percorso.
«In Epoca Laica, la scrittura gialla e quella fantascientifica sono al tempo stesso gli eredi e i curatori fallimentari della letteratura messianica. La loro diffusione di massa fa perno sul bisogno di vivere l’attesa dilazionata: il cuore, cioè, di ogni letteratura messianica. L’attesa della soluzione, l’enigma che fa sognare sono la materia stessa della grande promessa messianica, il tessuto intimo del suo kerygma. Lo stile e la profezia mancata di questa promessa sono l’essenza della letteratura gialla e fantascientifica. Poiché le Scritture colgono sempre il momento della storia, bisogna chiedersi se ciò avviene anche per il giallo e per la fantascienza. E la risposta è affermativa: essi rappresentano, nel migliore dei modi possibili, questo tempo, il tempo dell’Epoca Laica. Essi ne intuiscono e ne mettono in scena la verità. La storia dell’Epoca Laica, al momento del suo sviluppo attuale, è una storia di segreti e dissimulazioni, di cospirazioni a favore di sé e a svantaggio della verità rappresentata. Non c’è rappresentazione della verità, oggi, se non in forma di segreto e di complotto. Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso. La letteratura gialla, che sospetta di tutto e parla di tutto, svela l’enigma, o meglio, promette di svelare l’enigma: questo è sufficiente. Poiché ciò di cui si parla non esiste, la letteratura gialla diviene il mondo: essa parla di tutto. Quanto alla fantascienza, essa ha il merito e il demerito di avere immaginato, fin nei minimi dettagli, il mondo così come è oggi. Poiché immagina di ben peggio, bisogna stare poco tranquilli. Più ci si allontana da una rappresentazione laica dell’Epoca che viviamo, più ci accorgiamo che giallo e fantascienza convergono fino a coincidere. La loro promessa è lo spirituale e il disvelamento finale della natura. Questo risultato, a cui tende l’intera galassia teologica in ogni momento del suo sviluppo, è irraggiungibile e sempre dilazionato, poiché per ottenerlo bisognerebbe essere fuori della galassia: il che non è possibile» (pp. 116-117).
La letteratura contemporanea più significativa (da James Ellroy a Philip K. Dick, da William S. Burroughs a Thomas Pynchon, da Philip Roth al Don DeLillo più esornativo e meno didascalico) è tutta circoscritta, perimetrata dall’idea del complotto come sostanza del segreto del mondo della vita. Ciò che è autenticamente “vero” è ciò che non si può mostrare, non si può esprimere, non si può far trapelare. Solo la scrittura può carpire il segreto del mondo e risolverne l’enigma. La verità fa parte del mondo del falso, ne è parte integrante – scrive qui Genna citando alla lettera una famosa dichiarazione aurorale di Guy Debord in La società dello spettacolo del 1967.
Le differenze possibili tra queste due facce della stessa medaglia sono tali da richiedere un percorso accanito fatto di tracce, di strade trasversali, di intuizioni sottili, di mimesi linguistiche assolutamente parziali e spesso irrintracciabili a occhio nudo.
Nella parte finale del libro, Genna ribadisce il suo debito nei confronti degli stilemi concettuali delle operazioni mimetico-linguistiche di Burroughs e lo fa adottando una sorta di taglio mistico piuttosto che narrativo. Burroughs risulta, comunque, in Genna un punto di riferimento per la lingua usata e per la scrittura come strumento affilato piuttosto che un maestro di vita spirituale:
«Sono certo che la fantascienza, per come la ha intesa il grande padre Burroughs, costituirà per me l’ultima allusione. A questo mi si è ridotta la letteratura tutta. La visione delle cose, politicamente, prenderà traiettorie in reciproco allontanamento, una delle quali intercetta il deserto rosso, sul quale siamo costretti a esondare» (p. 317).
Eppure nessun testo di questo libro è un racconto di fantascienza (né in senso “classico” né in accezione più allusiva al genere e alle sue risorse). Oppure lo è forse ciascuno di essi perché parlare del presente leggendolo come un geroglifico di difficile decifrazione (come era, infatti, per Burroughs nei suoi romanzi del cut-up) o guardandolo dall’interno di un infundibulo temporale (come faceva Vonnegut ai suoi tempi). Di conseguenza, le storie spesso forsennate e adrenaliniche della prima parte del volume diventano meditazioni solenni e sospese nella sua seconda parte.
Il tempo devastato e vile è quello nel quale siamo costretti a vivere senza volere e senza sapere come fare per andare oltre – la sua viltà è il frutto della devastazione delle coscienze e la sua devastazione geologica e umana è il frutto della carenza ontologica delle volontà che dovrebbero impedirla. Si è quello che si vuole, si diventa quello che si può:
«Non esiste una terapia all’umano o per l’umano, se non la sua estinzione. Questo sogno è terapeutico. Ogni genere (letterario, etimologico, psichico, morale, fisico) è stato stuprato, affinché si aprisse lo spazio senza genere: uno spazio generico, una End Zone. E’ tale il luogo in cui il desiderio, finalmente realizzato, o l’esperienza, finalmente compiuta, vengono trascesi, in modo da essere visti quali sono: desiderio ed esperienza. In un decennio è accaduto nell’arte. Nella letteratura, in particolare. E’ stato appiccato un incendio che è divampato, bruciando i vocabolari. I generi, macrostrutture retoriche, si sono consolidati, hanno perduto energia, si sono metallizzati e, essendo metallici, sono diventati gabbie: non sono stati più utili a partecipare alla grande festa del divenire, che è la vita vivente in cui Ci Si Incontra E Si Ama. Quando si assiste all’irrigidimento degli stilemi, accade che gli stilemi dettino dittatorialmente agli autori, senza che gli autori ne siano consapevoli e venendone usati come strumenti ai fini di un monologo infinito. Il monologo infinito è la decadente difesa della lingua del trauma. Ma poiché non esiste nulla di esperibile che sia infinito, prima o poi quel monologo stanca. Crolla, avviene che l’umano scelga quale direzione prendere a un bivio: o reinstaura una lingua che soddisfi la spinta libidica oppure si instaura la lingua del trauma» (p. 233).
Il tempo devastato e vile è, dunque, quello del trauma, del passaggio, cioè, dall’umano alla sua possibile sua estinzione. E’ questo il tempo della fantascienza, allora: la descrizione dell’estinzione di un mondo e la sua sostituzione con i brandelli di un altro. Quello che è finito e non ritorna ha ancora bisogno di appoggiarsi a ciò che è stato ma solo per poterlo compiutamente decostruire. I frammenti di senso dei cut-up di Burroughs, i luoghi lunari e inarrivabili delle distopie di Dick, i personaggi e le storie incredibili e intricate di Pynchon tendono tutte a convergere verso un nuovo statuto immaginale delle storie che raccontano soltanto la loro implosione come contenitore transitorio delle energie disperse degli esseri in via di estinzione. Il trauma è la zona del disastro nella quale viviamo già tutti e che siamo costretti a raccontare per poterla rendere abitabile. Merito di Genna è averla descritta tumultuosamente ed efficacemente – la sua corsa a perdifiato in un mondo gelido e assurdo, trasformato in un paesaggio rosso-marziano nel quale non si trovano più punti di riferimento è quella che scandisce i passaggi umani del tempo di oggi in attesa di un futuro che non sempre sia in grado di sbocciare tanto presto.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)