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IL TERZO SGUARDO n.3: Alla ricerca di una possibile verità. Gustavo Micheletti, “Lo sguardo e la prospettiva”

Creato il 22 aprile 2010 da Retroguardia

IL TERZO SGUARDO n.3: Alla ricerca di una possibile verità. Gustavo Micheletti, “Lo sguardo e la prospettiva”

Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)

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di Giuseppe Panella

 

Alla ricerca di una possibile verità. Gustavo Micheletti, Lo sguardo e la prospettiva, Firenze, Clinamen, 2009

Lo sguardo e la prospettiva rappresenta un punto fermo nell’ampia e sostanziata ricerca di Gustavo Micheletti partita anni fa con una tesi dedicata al pensiero di Leibniz (discussa con Remo Bodei) e proseguita poi, da allora in avanti, utilizzando molti e diversi mezzi espressivi (tra cui il romanzo, la prosa narrativa, il saggio filosofico e l’intervento giornalistico).

L’intento espresso da Micheletti in questa sua ultima prova filosofica è molto ambizioso:

«Che la conoscenza della verità in quanto tale non fornisca alcun aiuto decisivo per il conseguimento di una vita più piena o felice era stato già notato ed evidenziato, tra gli altri, e ancorché in modi e con accentuazioni diverse, dai grandi tragici greci, da Platone, Aristotele, Spinoza, Leibniz, Kant, Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche. Tale difficoltà ci ha però suggerito di esaminare il rapporto che sussiste tra la conoscenza della verità e quella esigenza di una vita autentica che a sua volta può manifestarsi in una parola piena, e che deve sempre fare i conti con il tipo di conoscenza a cui ciascuno ha avuto accesso, ovvero con quelle teorie che, più o meno consapevolmente ed esplicitamente, egli usa per interpretare il mondo e se stesso. Ma la caratteristica forse più originale (ammesso che ve ne sia una) di questo saggio non consiste semplicemente nel tentativo di approfondire la relazione tra la verità e tale pienezza di vita, quanto piuttosto nel considerarla a partire dall’esame della concezione prospettivistica della verità: quello che infatti si cercherà qui di mostrare è che proprio nel passaggio dalla verità, così concepita, allo sguardo, si può realizzare quel modo di sentire e concepire insieme la propria esistenza e quella del mondo, con le sue leggi da decifrare, che può a sua volta farci comprendere e percepire la verità in un modo che sia rilevante non soltanto sotto il profilo conoscitivo, ma anche in una dimensione esistenziale, etica ed estetica» (Gustavo Micheletti, Lo sguardo e la prospettiva, Firenze, Clinamen, 2009, p. 12).

La prospettiva adottata da Micheletti, tuttavia, ha una posta in gioco di rilevante importanza: si tratta di chiarire e di verificare la qualità stessa della ricerca della verità. Tradizionalmente quest’ultima è stata sempre letta, almeno nel pensiero occidentale, come qualcosa che permettesse di individuare de-finire e comprendere la conoscenza quale “specchio della natura” (per usare un’espressione che ha qualifica il lavoro filosofico di Richard Rorty).

Se, però, la conoscenza della realtà e delle leggi scientifiche non può essere più vista come rispecchiamento reciproco e la gran parte delle discussioni e delle riflessioni sulla “logica della scoperta scientifica” a partire dal Popper dell’opera con questo stesso titolo in poi sta lì a comprovarlo.  Niente affatto a caso, Micheletti analizza riassume e verifica questo aspetto del pensiero filosofico del Novecento in un’ampia sezione del suo volume (da pp. 65 a pp. 166 nella seconda parte del libro intitolata La corrispondenza e la prospettiva).

La sua concezione di tipo prospettivistico, tuttavia, non deriva solo e soltanto da Nietzsche (che a sua volta l’aveva cavata dal gesuita Giuseppe Ruggiero Boscovich) ma, con una sorprendente “mossa del cavallo” dal pensatore spagnolo José Ortega y Gasset e dalla sua metafora dell’arancia quale oggetto che ha una rotondità cosale che ne impedisce la visione immediata nella sua totalità:

«Anzitutto vediamo solo un aspetto, un emisfero (approssimativamente) e poi dobbiamo muoverci e vedere l’emisfero successivo. Ad ogni passo l’aspetto dell’arancia è diverso – si articola con l’anteriore quando questo è già scomparso, di maniera che giammai vediamo completamente l’arancia e dobbiamo accontentarci di vedute successive. In questo esempio, la cosa necessita di essere vista completamente con una veemenza tale che ci spinge a girare materialmente intorno ad essa. Non v’è dubbio che è l’arancia, la realtà, causa del passaggio da un aspetto a un altro, ad obbligarci a spostarci e affaticarci. Ma è chiaro che questo accade perché, in ogni momento, possiamo osservarla solo da un punto di vista. Se fossimo ubiqui e, contemporaneamente, potessimo osservarla da tutti i punti di vista, l’arancia non avrebbe altri ‘aspetti diversi’. Subitaneamente la vedremmo intera» (José Ortega y Gasset, Idee per una storia della filosofia, trad. it. di Armando Savignano, Firenze, Sansoni, 1983, p. 125).

La possibilità che ciascuno dei soggetti coinvolti nell’impresa di osservare l’arancia, allora, è quella di una mediazione sensoriale che approssima i diversi emisferi dell’arancia non con la vista intesa come strumento universale e oggettivamente non falsificabile ma attraverso l’uso di una visione prospettica che utilizza i sensi dal punto di vista individuale. L’arancia viene vista da ognuno mediante un angolatura prospettica diversa; epperò quella stessa arancia rimane la stessa comunque e chiunque la osservi:

«Il mondo invia verso di me una prospettiva, seleziona un aspetto che solo io posso vedere. Ma questo non vuol dire che il mondo non sia come io dico e vedo. Tutti gli aspetti e le prospettive dell’oggetto sono veritiere” – afferma il pensatore ispanico nel seguito del brano citato sopra.

Il modo di vedere il mondo che contraddistingue gli esseri umani è basato su una prospettiva di visione che va dal particolare all’universale e costruisce una gerarchia della possibilità di individuare un elemento di stabilità epistemologica. Ognuno vede il mondo a modo suo ma il mondo esiste, nonostante questo, e può essere visto nella sua totalità mediante una sommatoria adeguata di punti di vista individuali. Non esiste una visione assoluta del reale ma l’insieme delle visioni particolari. La conoscenza prospettica risulta la missione di verità del Soggetto.

Questa dimensione della prospettiva presente nell’opera di Ortega rimanda ai referenti culturali e filosofici dell’autore spagnolo: Dilthey, in primo luogo, che egli tradusse nella sua totalità in lingua iberica e Georg Simmel alle cui riflessioni sul paesaggio (naturale e umano) e sul volto e il ritratto lo stesso Micheletti rimanda poi successivamente:

«Per Rimmel non c’è “nel mondo visibile, alcuna struttura che, come il volto umano, riesca a convogliare una così grande varietà di forme e di superfici in una così incondizionata unità di senso” (Georg Simmel, Il significato estetico del volto in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, trad. it. a cura di Lucio Perucchi, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 48). Questa straordinaria capacità di sintesi non riguarda però soltanto le forme e le superfici del volto, ma anche le dimensioni diverse dell’anima, le linee rivolte verso l’esterno e quelle rivolte verso l’interno, quelle rivolte verso il passato e le altre, che prospettano il futuro e l’immagine di una vita compiuta. Il viso offre infatti allo sguardo “il simbolismo intuitivamente più completo dell’interiorità permanente e di tutto ciò che le nostre esperienze vissute hanno fatto depositare nel fondamento duraturo del nostro essere” (Georg Simmel, Sociologia, trad. it. e cura di Alessandro Cavalli, Milano, Edizioni di Comunità, 1989, p. 552), ma esso è anche in grado di registrare le mutevoli situazioni e gli impulsi di ogni momento particolare, di modo che l’essenza sovra-singolare di ogni individuo vi si presenta “nella colorazione particolare di uno stato d’animo, di qualcosa che lo riempie” (ibidem), rendendo visibili nella contemporaneità i tratti fluidi e molteplici della nostra anima» (Gustavo Micheletti, Lo sguardo e la prospettiva, Firenze, Clinamen, 2009, p. 273).

Dal volto e dalla sua fisiognomica alle diverse colorazioni dell’anima il passo è forse più breve di quanto possa sembrare ma il passaggio non può essere mediato se non dalla poesia. Rifacendosi al Pessoa eteronomo, nello specifico l’Alberto Caeiro del Guardiano di greggi, Micheletti invita gli scrutatori dei più vari e variegati paesaggi naturali e umani, delle vicende imperscrutabili e semplicissime che ogni giorno si svolgono sulla Terra, dei misteri e delle complesse vicende che intrecciano gli uomini agli dei, a comprendere come la vera sostanza dell’apprendimento a vedere, la possibilità unica di imparare qualcosa di nuovo del mondo consiste forse in “un apprendistato a disimparare”. Fare a meno delle proprie certezze considerate irrinunciabili, mettere in discussione il proprio Io e la propria “sostanza pensante”, rifiutarsi di dare per scontato tutto ciò che si crede vero e inevitabile è l’unico mezzo per scoprire qualcosa di nuovo. Per Micheletti:

«La nascita dello sguardo può essere preparata dalla conquista di una propria prospettiva filosofica linguisticamente e concettualmente articolata, ma può sorgere nell’anima solo con l’aurora di un silenzio che la inonda di una luce nuova: una luce che è pura adesione a ciò che, “imparando a disimparare”, senza ulteriore resistenza si può imparare a vedere e che può sempre sorprenderci in una dimensione riflessa ed estatica, sospenderci in una visione delle cose fattasi pura trasparenza, in cui anche il tempo tende ad annullarsi, e con esso ogni memoria impropria. Ogni selezione degli elementi e delle circostanze che hanno contrassegnato in maniera eminente il nostro passato diviene allora cosa vana, perché tutto ciò che di più significativo è accaduto si trova alla stessa distanza non misurata, nella luce bianca di un sole notturno, che come in una notte bianca sembra ormai una grande luna che sfiora appena il paesaggio dell’anima e, sfiorandolo, lo trasfigura» (Gustavo Micheletti, Lo sguardo e la prospettiva, Firenze, Clinamen, 2009, p. 345).

Con queste affermazioni arricchite e rafforzate dal semplice pathos della ricerca teorica, Micheletti congiunge e coniuga la poesia alla ricerca estetica sulla soggettività umana e alla sua etica a venire.


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