Intellettuali, politica, misantropia. Alfonso Berardinelli, Che intellettuale sei?, Roma, Nottetempo, 2011
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di Giuseppe Panella*
Il tema della necessità e dell’importanza della funzione degli intellettuali tormenta da sempre l’intelligenza critica di Alfonso Berardinelli. Alla riflessione su questo argomento ha dedicato numerosi libri e libretti – uno di essi, di notevole acume, si intitolava L’esteta e il politico: sulla nuova piccola borghesia (Torino, Einaudi, 1986) e si proponeva di sondare la consistenza di diverse e compossibili tipologie di questa categoria sociale; un altro, di undici anni dopo, L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Torino, Einaudi, 1997), ritornava sul tema in chiave più divertita e, se possibile, più amara, con momenti, tuttavia, di forte coinvolgimento satirico.
Che intellettuale sei?, composta da una serie di testi apparentemente occasionali ma ben coordinati tra loro in modo da formare un insieme coeso e compatibile, tenta una serie di affondi su una tematica – come si potrà facilmente intuire – del tutto inesauribile e che, per questo, necessita di continui aggiustamenti e di argomentazioni sempre nuove. La tentazione tassonomica, però, è forte e neppure questa volta Berardinelli vi si sottrae. Gli intellettuali, stavolta, vengono distinti in tre categorie essenziali: i metafisici, i tecnici, i critici (tutti contraddistinti, nell’esercizio delle loro funzioni, da una rigorosa lettera maiuscola). A tutti e tre i modelli di intellettuale diffuso vengono rimproverati difetti di varia natura connessi alla loro formazione di base – il Metafisico, sopravvissuto all’Illuminismo e alla prima diffusione del marxismo, crede nella ricerca di una Verità assoluta, di una dimensione “pura” dell’Essere che vada però oltre la metafisica onto-teologica tradizionale; il Tecnico, creazione, invece, proprio dell’Illuminismo divenuta dimensione positivistica della realtà del presente, crede soltanto nei fatti e nella possibilità di agire al loro livello di funzionamento “oggettivo”; il Critico, infine, è colui il quale sparge il seme del dubbio, incarna la dimensione dello scetticismo e della polemica serrata contro il mondo, affronta la solitudine in nome delle proprie opinioni e si concede all’accettazione dell’esistente solo molto raramente. Ovviamente, secondo Berardinelli, queste categorie non sono mai “pure” ma spesso si presentano con caratteristiche di innesto reciproco con esiti talvolta tra il terrificante o l’involontariamente comico. Il fatto è che non esistono mai intellettuali come genere o come categoria sociale ma solo singolarità pensanti con le loro idiosincrasie culturali e i loro progetti di interpretazione-trasformazione del mondo. Certo, for poetry makes nothing happen (ad opera della poesia non avviene nulla) – come ha scritto Wynstan Hugh Auden nel suo poemetto In Memory of W. B. Yeats del 1939, ma è anche vero che la poesia non si dà mai al servizio della politica; semmai, in determinate occasioni, funziona bene proprio nonostante essa e nonostante il desiderio dei grandi intellettuali novecenteschi di servirla. Le eccezioni a questo generale rapporto di dipendenza sono, tuttavia, quelle che permettono di cogliere meglio determinate contraddizioni della Storia e i suoi errori (ed orrori) maturati in momenti cruciali di essa. Il caso di George Orwell o di Simone Weil sono, al proposito, esemplari ed accolti con interesse e approvazione da Berardinelli stesso:
«Così Orwell e Simone Weil, i maggiori e più originali scrittori politici del secolo scorso, si sono dimostrati tali nella loro capacità di descrivere e giudicare la politica da un punto di vista esterno alla politica. Non c’è mai in Orwell e nella Weil nessuna identificazione con il ceto politico e con le classi dirigenti. Per il sociologo e per il politico gli intellettuali sono una categoria, una serie di corporazioni e di gruppi di pressione. Così nel secolo della politica, delle scienze sociali e della tecnocrazia, gli stessi intellettuali hanno cominciato a vedere se stessi come un’entità collettiva. Si sono valutati e studiati in quanto ruolo e funzione sociale, o strumento utile in vista di scopi politici. Hanno voluto sentirsi specialisti, funzionari, organizzatori e infine, a loro volta, politici» (p. 43).
E’ stato un errore quest’ultimo o ha apportato vantaggi significativi alla considerazione esterna (sociale e politica) di questo gruppo socialmente esile dal punto di vista numerico ma spesso influente e considerate fondamentale per la formazione dell’opinione pubblica (quando ancora quest’ultima contava in qualche modo e non era ancora svanita nel gorgo fluente e versicolore della sfera mediatica? Probabilmente sì, secondo Berardinelli, anche perché, nella maggior parte dei casi, i grandi intellettuali europei (come pure i grandi autori letterari che si sono susseguiti nel corso dei secoli nella cultura occidentale a partire da Rousseau in poi) furono dei “misantropi”. Individuando in un celebre testo teatrale di Molière, Le Misanthrope del 1666, il capostipite della descrizione di questo atteggiamento nei confronti della società, Berardinelli si dilunga su alcuni esponenti esemplari di questo modo di confrontarsi con una società che viene disprezzata aspramente ma che, nello stesso tempo, risulta necessaria quale bersaglio polemico per l’esposizione delle proprie idee sul mondo e sugli uomini. Pascal, Rousseau, Hölderlin, Leopardi, Kierkegaard, Ruskin, Tolstoj, Flaubert, Baudelaire, Karl Kraus, Orwell, Theodor Wiesegrund-Adorno, Kafka, Thomas Mann, Pasolini e finanche Italo Calvino vengono ri-collocati all’interno di questa maxi-categoria meta-sociale e umoralmente fondata su considerazioni tanto generali quanto assennate (ed è per questo che magari Tolstoj e Ruskin a questo modo di pensare non sempre corrispondono).
Misantropi o meno, della funzione critica degli intellettuali, nonostante i tempi vigenti e le considerazioni imperanti sulla cultura, non si può fare certamente ancora a meno. Nell’analisi della figura del critico “militante” e riflettendo sulla sua eclisse (o scomparsa), Berardinelli organizza alcune delle riflessioni più rilevanti (e acute) presenti in questo suo volumetto:
«Il critico non va confuso con il recensore. Può fare o non fare recensioni (di solito le fa). Ma dovranno avere qualcosa che le faccia riconoscere come parte di un insieme. Il critico militante è un tipo di scrittore la cui opera si manifesta a puntate: il lettore dovrebbe intuire che sono le puntate di un romanzo intellettuale che racconta il presente. Il recensore, invece, si distingue per questo: ha sempre l’impressione che facendo recensioni sta sprecando il suo tempo e le sue energie, perché invece, per essere veramente creativo, dovrebbe scrivere anche lui, come tutti, un romanzo o un libro di poesia. Il critico non fa questi sogni. E’ tutto in quelle cinquanta o cento righe del suo articolo. La sua opera è tutta lì. Se scrive un romanzo, lo fa con la mano sinistra e non ci tiene molto. Ci sono critici che si orientano secondo i propri gusti e cercano una qualità relativa o assoluta nei singoli libri. Altri individuano una tendenza letteraria, la difendono o la attaccano. […] Ci sono poi critici che usano i libri per pensare problemi non letterari. Si possono fare diverse cose insieme (gusto, tendenza, pressione ecc.): ma generalmente non tutte. Le mie preferenze vanno al critico che legge letteratura per capire qualcosa di diverso dalla letteratura» (pp. 73-74).
Un simile atteggiamento è auspicabile sempre se si considera la letteratura come qualcosa di relativo alla consapevolezza che essa ha del suo essere inserita in un contesto più ampio (come può essere la società o la scena politico-sociale) ma che rischia di spostare il problema della forma da fondamentale a secondario. Quello che mi sembra, invece, rilevante e di grande provocatorietà è, tuttavia, l’idea della critica come “romanzo a puntate” del presente. Infatti, se la critica non fosse sempre “storia contemporanea” anche quando parla di eventi letterari del passato più remoto o di questioni apparentemente relegate (e relegabili) nella “torre d’avorio” della filologia o dell’erudizione, non varrebbe la pena di scriverla (e di scriverne). La critica letteraria, anche quando è “storica” e non “quotidiana”, riflette, in termini certo non meccanici ma sempre mediati dalle potenzialità ermeneutiche della forma della scrittura, ciò che avviene intorno al critico (e non si tratta soltanto delle stantie vicende dell’editoria o delle polemiche “di bottega”) e che cosa gli permette di giudicare non tanto le opere di cui scrive ma di capire il perché esse sono state scritte.
«Il corpo della letteratura sta in piedi, cammina, ha ossa e muscoli, respira con i suoi polmoni, ha un cuore che batte e un sangue che circola, si nutre e digerisce, espelle le materie di scarto, si riproduce. Tutto questo si vede. La critica è il sistema endocrino del corpo letterario. Non i vede. Ma se funziona male, tutti gli altri apparati e sistemi si ammalano» (p. 76).
Forse la metafora organicistica di Berardinelli può sembrare un po’ azzardata (e poco adeguata all’oggetto) ma sicuramente rileva un aspetto necessario dell’attività intellettuale che viene troppo spesso dimenticata: i critici (e in genere gli intellettuali) devono servire a qualcosa altrimenti la loro funzione è pleonastica e inutile. Quando questo avviene e il loro compito risulta ben assolto, anche il livello generale della dimensione culturale in cui operano sale e cresce in modo adeguato; se, invece, esso risulta mediocre o inadeguato anche il loro “oggetto d’affezione” decresce e si abbassa. La critica, la letteratura e la dimensione culturale in cui essi si trovano – sostiene, di conseguenza, Berardinelli – sono collegati molto strettamente e la crisi dell’una comporta la decadenza e l’incapacità a incidere delle altre due. La posta in gioco, dunque, è, in ogni modo, la crescita dei soggetti che costituiscono il livello culturale generale della società di cui essi sono parte integrante e duratura.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)