La pagina e lo schermo. Vito Santoro, Calvino e il cinema, Macerata, Quodlibet, 2011
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di Giuseppe Panella*
“Non so niente di cinema” si intitola il primo capitolo di questo bel libro di Vito Santoro dedicato ai rapporti tra Italo Calvino e l’ottava musa. Ma, ovviamente, non è vero. Dalle sue molte opere, in particolare da quelle saggistiche, è possibile ricostruire un suo rapporto privilegiato con alcuni aspetti del cinema italiano (in particolare, con la produzione di Michelangelo Antonioni) e con l’estetica del cinema nello specifico della sua scrittura.
Nelle tre sezioni in cui è composto il libro, Santoro esamina in prima istanza Calvino come “spettatore” e la sua autobiografia dal punto di vista dell’importanza del cinema nella sua formazione di uomo o di scrittore, poi passa a esaminare la sua produzione di critico cinematografico e di Presidente della Giuria del Festival di Venezia nel 1981, infine in Dalla pagina allo schermo ricostruisce dettagliatamente tutte le trascrizioni sul grande e piccolo schermo di opere letterarie dello scrittore. A che conclusioni arriva il saggio di Santoro?
Che Calvino, pur essendo stato appassionato di cinema da bambino, non ha un grandissimo patrimonio cinematografico alle spalle (come la maggior parte dei cinéphiles), che qualche articolo di critica cinematografica lo ha scritto (tra la rivista “Cinema nuovo”, “La Repubblica” e “L’Unità”) ma senza un particolare accanimento produttivo in questa attività e che pochi suoi testi narrativi (in realtà quasi tutti racconto e un solo romanzo, Il cavaliere inesistente) sono stati portati sullo schermo cinematografico e televisivo. Se ne dedurrebbe un interesse “tiepido” per il cinema da parte dello scrittore e una sostanziale difficoltà se non idiosincrasia nei confronti della trasformazione in immagini delle sue produzioni letterarie.
Anche questo, altrettanto ovviamente, non è vero. Il rapporto di Calvino con il cinema è profondo (anche se non espresso in maniera precisa ed estesa) e investe la necessità stessa della sua scrittura.
In un breve saggio scritto in occasione degli ottanta anni di Eugenio Montale, Calvino arriva a paragonare la poesia (montaliana ma non solo) al cinema e la sua evocazione del mondo come un’accensione di immagini su uno schermo. Il commento di Santoro è efficace e netto:
«Dunque, per Calvino, la lettura di una poesia e la visione di un film sono due esperienze che implicano l’immersione in un mondo di immagini che solo concettualmente ha un creatore che le provoca e un fruitore che le riceve. In realtà in entrambi i casi si assiste al coinvolgimento in una specie di gioco collettivo fatto di rimandi concatenati tra loro, dove si ricevono e si ri-creano sensazioni, come i cristalli nel vortice di un caleidoscopio. In altre parole, attraverso il cinema e la poesia si possono suscitare immagini già viste sotto una diversa angolazione, cioè si può “vedere di più”, penetrare così a fondo nelle cose fino a trasfigurarle e pervenire ad un effetto di irrealtà. E secondo questa traiettoria si sviluppa la parabola del signor Palomar»[1].
Palomar, uscito nel 1983 e che porta come titolo la designazione del grande telescopio americano situato nella San Diego County, sarà, non a caso, l’ultimo romanzo pubblicato dallo scrittore; in esso la teoria della visione assurgerà a supremo telos della narrazione.
Il cinema, dunque, sembra sempre aver affascinato Calvino che lo considerava, forse, come una sorta di punto di riferimento teorico definito via via nel corso dello sviluppo della sua carriera di scrittore, confluendo alla fine in una dimensione di “ideale regolativo” che sarebbe sfociato nell’aspirazione alla visibilità delle sue ultime opere. E proprio alla visibilità, come viene descritta in una delle Lezioni americanedel 1985, per l’esattezza la quarta, che bisognerà rifarsi per comprenderne la specificità e la fondamentale importanza per la poetica calviniana.
Il fatto è che, nonostante la letteratura e il cinema puntino entrambi alla realizzazione di immagini per il lettore /spettatore, i procedimenti che utilizzano sono inversi. La letteratura passa attraverso immagini mentali per giungere alla parola scritta, il cinema parte da un testo scritto (il trattamento, la sceneggiatura) per concludere in un’immagine vera e propria, fatta di elementi della realtà che si propongono come “altra realtà”, “struttura che vuole essere un’altra struttura”[2]. Scrive Calvino:
«Possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Il primo processo è quello che avviene normalmente nella lettura: leggiamo per esempio una scena di romanzo o il reportage di un avvenimento sul giornale, e a seconda della maggiore o minore efficacia del testo siamo portati a vedere la scena come se si svolgesse davanti ai nostri occhi, o almeno frammenti e dettagli della scena che affiorano dall’indistinto. Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata “vista” mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set, per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del film»[3].
La scrittura è, di conseguenza, solo la prima fase di un film; in esso confluiscono i passaggi successivi relativi alle riprese, il montaggio e il taglio relativo delle scene, ivi comprese quelle rifiutate dal regista in questa fase. Questo aspetto spiega, peraltro, la difficoltà di Calvino ad accettare per Einaudi la pubblicazione di libri composti da sceneggiature, sia pure di grandi registi (Santoro analizza bene e insiste accortamente su questo aspetto alle pp. 17-20 del suo saggio).
Eppure del cinema non si può più fare a meno, sosterrà in un altro suo testo esemplare lo scrittore:
«Certo, dobbiamo dire che l’evidenza di verità che il cinema proietta così facilmente su volti e ambienti è illusoria, che sotto i proiettori del cinema ogni verità si trasforma presto in maniera, in retorica, in menzogna. Se il cinema restringe molto il campo del romanzo non è perché in qualche modo lo valga, ma perché dove passa il cinema non può più crescere un filo d’erba. Ancora tanti scrittori insistono nello scrivere romanzi in concorrenza con i film: e non raggiungono che risultati poetici minimi. Ambienti, personaggi, situazioni che il cinema ha fatto propri non possono più essere accostati dalla letteratura: come se fossero stati rosi all’interno dalle termiti, appena gli s‘avvicina la mano non ne resta che polvere»[4].
Del cinema cercherà, tuttavia, di fare il miglior uso possibile nella scrittura tersa e limpida come uno specchio che riflette una realtà immaginata e riverberata a più riprese quale è quella che costituisce il “realismo fantastico” delle sue storie.
Santoro ricostruisce inoltre in maniera assai esauriente il rapporto di Calvino con il cinema sia riferendo delle sue passioni filmiche (la stagione americana del “cinema classico” negli anni Trenta e Quaranta, il suo amore per Charlie Chaplin, il grande rispetto per quel film “immenso” che è 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e la negazione dell’importanza dell’interpretazione di Marlon Brando in Apocalypse now di Francis Ford Coppola) sia attraverso le riduzione per il grande e piccolo schermo di sue opere narrative.
Ma queste ultime non sono certo molte e non sono peraltro particolarmente significative se si eccettua il delizioso Cavaliere inesistente reso per immagini animate da Pino Zac nel 1969 e il buon Marcovaldo di Giuseppe Bennati del 1970, dove l’eroe eponimo delle mirabolanti e bizzarre storie della raccolta di storie fu reso emblematicamente da Nanni Loy, allora famosissimo per le sue Candid Camera in TV. Certo Francesco Maselli si è sforzato di rendere il mondo del fotografo Paraggi nel suo L’avventura di un fotografo (girato per la RAI nel 1983) e Alan Taylor ha trasportato in America situazioni e personaggi di Calvino in Palookaville, termine mediato da Fronte del porto di Elia Kazan, girato nel 1995: in esso predominano, tuttavia, più i toni della “commedia all’italiana” con la sua paradossalità e i suoi umori un po’ amarognoli che la ricerca dell’”immagine visiva” dello scrittore italiano (i racconti portati sullo schermo sono Furto in una pasticceria – che pare abbia ispirato anche I soliti ignoti di Mario Monicelli del 1959, Letto di passaggio e Desiderio in novembre). Quello che riscatta il film di Taylor, comunque, è l’interpretazione di Frances McDormannd, nel ruolo di June, prostituta dal cuore d’oro e dall’infinita pazienza.
Nel ricostruire un rapporto apparentemente così marginale nell’opera di un grande scrittore come Calvino come quello con il cinema, Santoro compie l’opera meritoria di individuare in essa una chiave di lettura della sua produzione letteraria che altrimenti avrebbe rischiato di rimanere inadeguatamente esplorata.
NOTE
[1] V. SANTORO, Calvino e il cinema, Macerata, Quodlibet, 2011, p. 23.
[2] La definizione è di Pasolini e Santoro, infatti, la ripete apertamente e correttamente nel proporre la divaricazione delle “immagini mentali” proposte da Calvino. Su questo tema in Pasolini mi permetto di rimandare al mio Pier Paolo Pasolini. Il cinema come forma della narrazione, Firenze, Clinamen, 2009.
[3] I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 1993, p. 93.
[4] I. CALVINO, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Milano, Mondadori,1995, p. 81.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)