Rossana Cavaliere, Leonardo Sciascia e le immagini della scrittura. Il poliziesco di mafia dalla letteratura al cinema, Pisa, Felici, 2015
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di Giuseppe Panella*
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Leonardo Sciascia è stato tra gli scrittori italiani più importanti del Novecento quello che è stato maggiormente prediletto dai registi e dai produttori cinematografici. Quasi tutta la sua opera romanzesca è stata trasferita sullo schermo sia al cinema che in televisione, con risultati spesso pregevoli e importanti (anche se talvolta non graditi dall’autore stesso che ne parlò, in relazione alla loro uscita, in termini poco elogiativi1). Inoltre l’aspirazione di Sciascia sarebbe stata quella di diventare egli stesso un cineasta anche se tale desiderio non si sarebbe potuto realizzare mai. In uno scritto pubblicato poco prima della morte e poi rifluito in Fatti diversi di vita civile e letteraria2, il valore dell’esperienza e della scrittura cinematografica andava al di là del puro e semplice “piacere dello spettatore” per divenire una vera e propria metafora della conoscenza.
Inoltre a Sciascia si debbono tre splendidi saggi che latu sensu possono essere definiti di critica cinematografica e che illustrano la sua profonda competenza sull’argomento: La Sicilia nel cinema3, Il volto sulla maschera4 e il già citato C’era una volta il cinema5 (come pure il suo amore per un modello di cinema ormai tramontato e divenuto altro da quello che poteva significare per dei giovani intellettuali negli anni tra il fascismo e il dopoguerra).
Ma non è la storia del rapporto d’amore tra Sciascia e il cinema6 l’argomento del bel saggio di Rossana Cavaliere. Il suo percorso è relativo (e solo apparentemente ristretto) a tre film tratti (o ispirati, date le differenze con il testo di partenza che l’autrice analizza minutamente nel corso della sua trattazione critica) da tre romanzi che appartengono contemporaneamente al genere poliziesco (di detection si potrebbe dire con termine anglosassone) e alla letteratura di mafia: tre testi esemplari al riguardo e ben noti anche al pubblico pur sempre vasto dei lettori di Sciascia.
Si tratta di Il giorno della civetta del 1961, A ciascuno il suo del 1966 e Una storia semplice che è del 1989 (in limine mortis)7. Le trame di questi romanzi sono troppo note per dover essere riassunte, sia pur cursoriamente.
Qual è l’operazione che Rossana Cavaliere realizza nel suo libro?
Mostrare, da un lato, l’interesse di Sciascia per una forma di scrittura che si misuri ad armi pari con il cinema e ne applichi in maniera mimetica ma non meccanica le forme espressive (tentativo perfettamente riuscito però soltanto in Il giorno della civetta), dall’altro, verificare come le trasposizioni cinematografiche dei tre romanzi di Sciascia sopracitati siano state capaci di rendere l’intento dell’autore e trasporre in immagini le sue intenzioni romanzesche. Il risultato, del tutto originale nelle conclusioni raggiunte, può essere condensato nella ricostruzione del montaggio sciasciano e nell’idea del nastro-pellicola come soluzione formale a livello di impostazione del libro da parte del suo autore (la verifica della forma-libro che ne scaturisce alla fine, cioè, per dirla con il Roland Barthes di S/Z, che ha prodotto analisi simili a proposito delle opere di Honorè de Balzac).
Nella stessa disposizione grafica del corpo del volume di Il giorno della civetta si può notare la volontà di Sciascia di disporre il suo testo come fosse il nastro di una pellicola:
«Un’ultima considerazione va fatta su una scelta tipografica particolare, finora non abbastanza evidenziata dagli studiosi: l’assenza di una divisione canonica del testo. L’intero romanzo, infatti, si dipana come un continuum: non è suddiviso in capitoli o paragrafi, ma di tanto in tanto compaiono gli stacchi grafici, spaziature bianche di uguale misura, che avvertono il lettore delle variazioni dell’intreccio, sottolineando i salti temporali per lo più collegati a trasferimenti di scena. Lo stacco grafico, pertanto, è utilizzato come un codice, che ritma la scrittura senza spezzarla: se l’avesse divisa in capitoli, il consueto obbligo per il lettore a “girar pagina” e il cambio di titolo avrebbero marcato diversamente la composizione del testo, facendone percepire più intensamente la suddivisione in sequenze narrative. Sciascia, invece, rinunciando ai capitoli, emula il taglio della pellicola: creando fratture grafiche deboli, quasi riassorbite dal flusso narrativo, con un meccanismo che diviene automatico anche per il lettore, a mano a mano che si orienta meglio nella struttura e si abitua a saturare gli spazi»8.
Nei romanzi successivi, tutto questo non avverrà né determinate tecniche tipiche del linguaggio cinematografico come il ralenti o il freeze frame shot (come avviene nella descrizione dell’assassinio di Colasberna situata nella parte iniziale del libro e che, però, non tornerà nella ricostruzione cinematografica del romanzo). La Cavaliere è molto accurata nel confrontare libro e film e i rapporti esistenti tra singole scene delle pellicole in questione e passaggi dei romanzi sono messi in rapporto con notevole acribia. Nel caso di A ciascuno il suo, l’esempio della caccia che apre sia romanzo che film può essere probante: in entrambi c’è evidente ironia nei confronti dell’attività venatoria ma se nel romanzo la “felice giornata” è liquidata con rapidità che si deve all’influsso linguistico del Manzoni dei Promessi Sposi, nel film la scena per avere lo stesso effetto impiegherà ben tre minuti. Per Una storia semplice, poi, uno dei film più riusciti nella resa fedele all’opera e allo stile sciasciano, basterà citare il modo perspicuo con cui vengono confrontate le pagine relative al prete assassino don Cricco e il modo in cui sono rese nel film (c’è un’apparizione del sacerdote alla stazione che non compare nel libro e che è stata aggiunta a indicare il suo ruolo futuro nella diegesi). Ma anche il modo in cui Gianmaria Volontè (il professor Franzò di libro e film) è costruito evidenzia una notevole differenza con il romanzo breve di Sciascia – se nel testo l’uomo non è descritto nei suoi caratteri fisici ma evidenziato solo dal suo modo di dire e di comportarsi, nel film a poco a poco assume la fisionomia dello scrittore stesso, con il suo modo di vestirsi e di gestire.
Il libro di Rossana Cavaliere, allora, per tutte queste sue caratteristiche e per la profondità dell’analisi in esso dispiegata, si presenta come un possibile modello di ricerche future che vogliano mettere in evidenza i rapporti esistenti tra letteratura e cinema (una vexata quaestio fin dai primi del Novecento che ha visto avvicendarsi sulla scena i maggiori intellettuali del Novecento) e spiegarne identità e differenze secondo i loro linguaggi specifici, senza il terribile dilettantismo degli esperti mancati in entrambe le discipline che troppo spesso ha reso inutili studi altrimenti interessanti e affascinanti.
NOTE
1 E’ il caso di A ciascuno il suo di Elio Petri, considerato da Sciascia poco perspicuo e contestualizzato sulla Sicilia (“sarebbe potuto sembrare ambientato in Puglia” – scrisse lo scrittore siciliano con tono certamente indispettito) e quello di Todo modo sempre di Petri sul quale le sue dichiarazioni solo apparentemente possono sembrare elogiative). Su Todo modo e l’irritazione di Sciascia, sono emblematiche le dichiarazioni rilasciate in un’intervista peraltro precedente e visibile in Lo schermo a tre punte, film-antologia firmata da Giuseppe Tornatore e rilasciata nel 1995. I rapporti con Petri, come si vede, non erano mai stati buoni. Su Petri, autore ancora poco considerato dalla critica accademica, cfr. il non perfettamente riuscito profilo di Alfredo Rossi, Elio Petri, Firenze, La Nuova Italia, 1979.
2 Palermo, Sellerio, 1989, pp. 118-123. Il cinema per Sciascia, come pure per il conterraneo e amico Bufalino, assunse negli anni della loro formazione un valore che travalicava di molto il fattore del divertimento “esotico” per presentarsi come vera e propria epifania conoscitiva. Già in Ciascuno il suo il ruolo del regista, evocato dalle Lettere alla signora Z. di Kazimierz Brandys che è citato nel romanzo, acquista un ruolo preminente anche nell’elaborazione e la conduzione della storia.
3 Pubblicato nel 1963 sull’annuario Film 1963 curato dallo storico e sociologo della letteratura Vittorio Spinazzola per Feltrinelli, sarà poi ristampato in La corda pazza, raccolta di saggi che uscì in prima battuta per Einaudi di Torino nel 1970.
4 Usxcito per la prima volta nel 1978 sul “Corriere della sera”, sarà poi ristampato, con l’aggiunta di una postilla sul camaleontico scrittore Romain Gary (figlio naturale del protagonista del testo, Ivan Mosjoukine, il grande attore dell’epoca del muto) in L. SCIASCIA, Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 182-201.
5 Su questo aspetto della “storia di Sciascia” (argomento che non è trattato adeguatamente nel pur importante saggio di M. ONOFRI, Storia di Sciascia, Roma-Bari, Laterza, 1994) cfr., invece, le affettuose annotazioni di M. COLLURA contenute in Il maestro di Regalpetra, Milano, Longanesi, 1996.
6 Su questo argomento va privilegiata la ricerca di S. GESÙ,”Sciascia al/e il cinema”, contenuto nel ricchissimo volume di materiali costituito da Aa. Vv. Leonardo Sciascia. Cinema e letteratura, a cura di S. Landi, Pordenone, Cinemazero, 1995, pp. 35-50.
7 I film tratti da questi romanzi – come è noto – sono stati diretti da Elio Petri (A ciascuno il suo, 1967), Damiano Damiani (Il giorno della civetta, 1968) e da Emidio Greco (Una storia semplice, 1989). Affezionato ammiratore e lettore di Sciascia, Greco girerà pure una non perfettamente riuscita messa in scena del romanzo Il Consiglio d’Egitto del 1963 (il film, invece, è del 2002).
8 R. CAVALIERE, Leonardo Sciascia e le immagini della scrittura. Il poliziesco di mafia dalla letteratura al cinema, Pisa, Felici, 2015, p. 82.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)