Mario Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Milano, il Saggiatore, 2015
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di Giuseppe Panella*
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Già Con il futuro alle spalle. Per un altro dizionario politico (raccolta di saggi già precedentemente pubblicati sulla rivista di spiritualità Bailamme e uscita per gli Editori Riuniti di Roma nel 1992) e La politica al tramonto (Torino, Einaudi, 1998) lasciavano intravvedere una linea o meglio una deriva che non era tanto inquietante ma che preludeva alla resa successiva. Lo stesso Tronti si è detto in interviste successive all’uscita del suo ultimo libro uno “sconfitto” ma non un perdente. Ma il fatto è che essere sconfitto con onore non vuol dire che si sia perduto tutto se lo si fa con stile. Lo stile è l’uomo (hanno detto a più riprese Goethe e Lacan) e Tronti ha sempre avuto uno stile rigoroso ed esemplare di pensiero che ne ha fatto il capofila di quella corrente importante della cultura politica italiana di sinistra che è stato il cosiddetto “operaismo” (inaugurato da un libro fondamentale, Operai e capitale, del 1966, opera dello stesso pensatore romano). Ma questo libro mostra, in taluni momenti, che lo stile, anche se rimane simile a quello del passato, non sempre risponde alle esigenze del presente. Che cos’è uno “spirito libero”?
Il riscontro va fatto sul pensiero nietzscheano e sulla sua riflessione sul Freigeist:
«Si chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato e ufficio o in base alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse» (Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, trad. it. di M. Montinari e S. Giametta, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Mondadori, 19702, p. 225 – la cit. è a p. 265 del libro di Tronti).
Dunque bisogna affrontare la sconfitta della parte operaia e del movimento che da esso prende il nome utilizzando gli strumenti che il “pensiero di libertà” (è così che viene definito) offre ancora a chi si considera un Freigeist, mescolando la cultura grande-borghese della Finis Austriae, in particolare Musil e Walther Rathenau, con il pensiero negativo (Nietzsche, Heidegger) e utilizzando il messianismo marxista-teologico di Benjamin (ovviamente generalizzo la grande ampiezza dei riferimenti di Tronti). Le riflessioni, inoltre, sulla natura “arcana” della merce, sul suo misticismo di “geroglifico” apparentemente incomprensibile, sul rapporto tra cose invece che tra uomini che impone alla dimensione sociale della produzione economica sono ancora assai pregevoli seppure debitrici della stagione teorica precedente di cui si diceva prima. Marx, quindi, e Nietzsche uniti insieme a Max Weber e a Walter Benjamin per spiegare il sistema capitalistico, le sue crisi, il suo tentativo di impadronirsi della realtà contemporanea prima attraverso la mondializzazione e poi con il mercato globale. Servono a spiegare, ancora una volta, come mai il più formidabile tentativo di parte operaia di assumere il potere e cambiare la storia del mondo (almeno in parti rilevanti e significative di esso) sia fallito. Il rimpianto di Tronti è molto forte (e già l’aveva espresso in altri luoghi della sua opera). Nonostante la mancanza di libertà politica che avevo afflitto i paesi del cd “socialismo reale”, nonostante la tragedia della guerra civile e nonostante il tradimento staliniano delle premesse legate allo sforzo di Lenin di creare un’economia e una struttura statuale veramente socialiste in URSS, il tentativo di creare lo Stato operaio è fallito e “non con uno schianto / ma con una lagna” (Eliot, Gli uomini vuoti). Certo Tronti dimentica che Stato e rivoluzione contiene sì la rivendicazione della dittatura del proletariato come fase politica della costruzione del dominio di classe di parte operaia (una fase temporanea di negazione dei diritti tradizionali della cultura giuridica formale) ma prevede anche la sua fine, il suo rapido scivolamento in una dimensione di “estinzione dello Stato”. Ma a parte questo (che è ormai un peccato veniale), il fatto è che lo Stato socialista in un paese solo è diventato con l’avvento di Stalin e della sua macchina di morte il governo di u uomo solo e la fine della dialettica politica all’interno della classe egemone.
La fine dell’URSS e la caduta dei “cocci del Muro” segnano la fine di una fase fondamentale (epochemachend) della storia umana e il vuoto che essi hanno lasciato non è stato ancora sostituito da nulla di altrettanto significativo che non fossero strategie graduali (e istituzionali) di riforma delle contraddizioni del presente. Ma neppure il riformismo – secondo Tronti – è più possibile oggi nell’epoca del capitalismo dispiegato che ha assorbito tutte le pratiche di opposizione alla sua volontà di sussunzione generale e che chiude spietatamente la partita con tutti i suoi avversari di classe integrandoli nel proprio modello di sviluppo e nel proprio stile di vita.
Tutte queste analisi di Tronti sono condotte a conclusione teorica e compiutamente dimostrate con l’aiuto di uno stile di ricerca spesso felice e ricco di pathos ma quello che, a mio giudizio, resta esterno e spesso incomprensibile è il tentativo, qui continuamente iniziato e rivendicato ma mai veramente reso coerente con le analisi di classe che compongono il tessuto del volume a livello espressivo ed espositivo, di dimostrare la natura eversiva e critica del cattolicesimo (esemplari le analisi del percorso di Romano Guardini e di Giuseppe Dossetti, pensatori e politici che hanno operato in una dimensione espressamente religiosa se non clericale – entrambi erano due sacerdoti).
La negazione del lascito feuerbachiano di Marx è la conseguenza di questa volontà di recupero non solo della tradizione mistica o della spiritualità libera dei laici ma anche della dimensione istituzionale della Chiesa Cattolica, che mi appare troppo un partito preso per non sembrare una forzatura, anche politica. La dimensione sovversiva della figura del Cristo non basta a coprire gli errori (e gli orrori) istituzionali dovuti ai suoi discepoli successivi e ai suoi supposti interpreti e continuatori di pensiero.
Detto ciò non posso negare che la lettura di ogni libro di Tronti è sempre un momento emozionante di riflessione. Se non posso negare il mio debito intellettuale e la mia riconoscenza nei suoi confronti e l’impressionante impatto che la sua lettura di un tempo ha avuto sulle mie più modeste riflessioni, non posso neppure negare che oggi il suo pensiero è giunto a un capolinea.
“Non potete che comprendere molto male il vostro professore, se restate sempre suoi allievi” (Nietzsche). Forse oggi questa riflessione può costituire il mio miglior commiato da Mario Tronti, maestro e amico.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)