Sottratto all’oblio. Mirko Grasso, Cinema primo amore. Storia del regista Antonio Marchi, con una prefazione di Adriano Aprà, una nota critica di Paolo Simoni e un ricordo di Bernardo Bertolucci, Calimera (Lecce), Kurumuny Editore, 2010
«Elegante e misterioso. Così mi appariva Antonio Marchi da bambino. Capitava a pranzo da noi di domenica, nella luce marina degli anni Cinquanta. Sono stato geloso di lui. Pensavo piacesse a mia madre. A tredici anni volevo picchiarlo. Fu la mia prima pulsione erotica cinematografica. Se sono diventato regista di film è stato per imitare Antonio Marchi» (p. 7).
Sono le parole con cui inizia la testimonianza di Bernardo Bertolucci che apre il libro-rievocazione di Mirko Grasso su Antonio Marchi. Personaggio centrale e di notevole rilevanza all’interno dei dibattiti sul cinema e la sua funzione estetica e sociale nell’immediato dopoguerra, il regista parmigiano era stato completamente rimosso (o quasi) dai percorsi culturali che esplorano quegli anni e questo libro ha il grande merito di ricordarne la figura. Nato nel 1923, in piena era fascista, la ricerca di Marchi si ferma nel 1958 quando abbandonerà Roma per tornare a Parma a produrre i gelati che un geniale artigiano, Antonio Tanara, realizzava solo a livello cittadino (nel 1965, i testi pubblicitari della ditta saranno affidati a Giovannino Guareschi che scriverà per essa le avventure di Gigino Pestifero il ribelle che si consola per le sconfitte subite da lui e il suo gruppo di ragazzini anticonformisti soltanto se mangia i gelati che gli piacciono). Da allora, Marchi non girerà più nulla e morirà nel 2003, dimenticato come cineasta. Scrive Adriano Aprà nella sua Prefazione al libro di Grasso:
«Il cinema italiano, questo sconosciuto, si potrebbe cominciare col dire. Antonio Marchi è un nome fra tanti che meritano di essere riconsiderati. Mirko Grasso lo ha fatto, e bene. E’ colpa della distrazione degli storici del nostro cinema se solo ora si è riempito un vuoto? Non proprio. A nostro conforto, diciamo invece che la ricchezza del nostro cinema è stata occultata da nomi che già all’epoca della loro maggiore presenza hanno occupato le prime fila dell’attenzione, e che da allora ci si è un po’ impigriti. Non solo per incapacità di individuare valori, ma per semplice impossibilità di vedere, che oggi è assai meno grave di ieri perché è assai più diffuso il bisogno di conservare» (p. 9).
Forse è stato così. Forse, però, Antonio Marchi, figlio di una generazione che ha conosciuto il cinema come arte grazie ai Cineguf, le organizzazioni universitarie volute da Vittorio Mussolini per avvicinare i giovani alla conoscenza dei capolavori del cinema mondiale, e ha subito l’impatto del suo fascino in una dimensione che svaria dal letterario al sociale, ha anche pagato i costi di una linea di produzione nazionale che privilegiava, da un lato, i grandi autori del neorealismo (da Rossellini a De Sica) e, dall’altro, il cinema di puro intrattenimento. Non c’era spazio, insomma, per un cinema come Marchi lo concepiva – fatto di immagini calde e poetiche e propenso a scivolare nell’ironia (il suo unico lungometraggio, Donne e soldati, diretto nel 1954 insieme al co-sceneggiatore Luigi Malerba, è considerato un antesignano dell’Armata Brancaleone, il capolavoro, sgangherato e strapotente, ironico e grottesco, girato da Mario Monicelli nel 1966).
Antonio Marchi probabilmente è arrivato troppo presto. Allievo ideale di Attilio Bertolucci, instancabile organizzatore di cicli e rassegne al Cineguf di Parma, autore di appassionate (ma forse poco scaltrite) recensioni per le riviste “La Fiamma” e “Il Piccone”, desideroso di provarsi a girare in proprio, il regista di Parma realizza, nel 1945, La liberazione di Montechiarugolo, un breve filmato rimasto finora inedito e pubblicato in un dvd allegato al libro di Grasso.
Seguiranno ben presto, subito dopo il necessario assestamento postbellico, una serie di brevi documentari con testo di Attilio Bertolucci: Il formaggio parmigiano, In Puglia muore la storia, La duchessa di Parma, Nasce il Romanico, Canzoni fra le due guerre, La palla ovale, tutti realizzati tra il 1949 e il 1950, in un crescendo che porterà Marchi al lungometraggio del 1954.
Precedentemente, fin dal 1946, Marchi si era fatto promotore di un importante progetto di rivista critica, intitolata per l’appunto La Critica Cinematografica, e il cui primo numero esce nel febbraio di quell’anno. La rivista cesserà nel 1948 ma farà in tempo a ricevere contributi spesso di un certo rilievo da gran parte degli intellettuali italiani amanti del cinema – da Giuseppe Ungaretti a Oreste Macrì, da Giulio Bollati (che con Marchi poi collaborerà anche operativamente come aiuto regista per La Duchessa di Parma) a Mario Verdone, dal giornalista dell’”Unità” Ugo Casiraghi a Sergio Frosali, destinato poi a diventare il critico cinematografico della “Nazione” di Firenze, da Guido Aristarco e Francesco Pasinetti al pittore Ottone Rosai e il mitico Mino Maccari. La sua chiusura coinciderà con la partenza del regista per Roma quando inizierà la sua breve avventura di regista. Il suo posto, tuttavia, sarà preso dalla rivista “Sequenze”, diretta da Luigi Malerba e destinata ad essere un vivaio di giovani speranze della critica a venire.
Voluta da un avvocato parmense appassionato di cinema, Luigi Bagatti, La Cittadella Film si avvia verso la produzione di documentari la cui necessità era ormai molto sentita dopo la crisi seguita alla distruzione degli stabilimenti romani di Cinecittà. La casa produttrice nasce così nel 1946 e dovrebbe avere base permanente in Emilia considerata il luogo più adatto per questo tipo di realizzazioni cinematografiche che dovrebbe unire spettacolarità a dimensione artistica grazie alla bellezza dei luoghi urbani e del paesaggio ad essi circostante.
Tra il 1948 e il 1951 si consuma la parabola della Cittadella Film che verrà messa in liquidazione solo nel 1959, dopo un periodo di incertezze e di difficoltà sempre crescenti. Nel 1954, tuttavia, Marchi aveva realizzato il suo primo e unico lungometraggio, Donne e soldati, co-diretto con Malerba e con la consulenza artistica di Attilio Bertolucci e Riccardo Ghione, il futuro sceneggiatore e regista di La rivoluzione sessuale, un film libertario del 1968.
La storia raccontata nel film è abbastanza semplice: nel 1422, i lanzichenecchi stringono d’assedio il castello di Torrechiara, situato a venti chilometri da Parma. Le difficoltà di vita, la fame e gli stenti dovuti all’inverno rigido di quell’anno che le affliggono spingono molte donne del paese a stringere rapporti, anche affettivi, con gli invasori tedeschi. Quando i capi delle due diverse fazioni vorranno riprendere le ostilità, donne e soldati si rifiuteranno, diventando un popolo solo e a combattere rimarranno soltanto i comandanti dei due eserciti restando morti sul campo. Il film doveva essere recitato in lingua emiliana e in alto-atesino con tentativi di dialetto (da parte dei lanzichenecchi) ma la distribuzione impose un doppiaggio piuttosto inverosimile. Nel tono grottesco della vicenda, inframmezzato da intermezzi comici, dove gigioneggiava un giovane Marco Ferreri in corazza nel ruolo del duca italiano (Ferreri avrebbe curato anche l’organizzazione generale della pellicola) mentre quello tedesco era interpretato da un rigido e teutonico Joseph Reichsigel. La protagonista femminile più conosciuta era Marcella Mariani, nota per essere stata Miss Italia del 1953 e che sarebbe scomparsa poco dopo in un incidente aereo sul monte Terminillo, ormai reduce dall’aver interpretato una parte assai significativa (una giovane prostituta italiana) in Senso di Luchino Visconti.
IL film non ebbe fortuna: la critica lo elogiò e ne mise in rilievo l’impianto satirico che voleva alludere alle vicende della guerra da non molto terminata (i due condottieri del film altro non erano che versioni grottesche di Mussolini e di Hitler). Ma la distribuzione non lo spinse a sufficienza e il film scomparve ben presto dalle sale di prima visione.
Dopo questo tentativo riuscito a metà, Marchi girerà per conto della casa produttrice Filmeco soltanto un altro documentario, Itinerari nel Lazio, nel 1956, poi si ritirerà a vita privata trovando lavoro nell’industria alimentare (come si è già detto).
Mirko Grasso – scrive Aprà nella Prefazione – ha lavorato bene. E ha ragione. Nel suo libro non solo viene ripercorsa la “vita cinematografica” del regista parmense ma viene ricostruita, in maniera incisiva e documentata, la storia culturale dell’Italia del dopoguerra con tutte le sue incertezze e i suoi entusiasmi, le sue aspirazioni a un ritorno alla normalità e la sua volontà di trovare una nuova vita artistica libera dalle opprimenti condizioni di censura preventiva e di mancanza di apertura verso il mondo esterno cui l’aveva costretta il fascismo.
La figura di Marchi rappresentava tutto questo e non si può che dolersi di come la sua parabola di regista e cultore di cinema sia stata troppo precocemente troncata da eventi non legati alla sua volontà e passione artistica.
Giuseppe Panella