La mia fortuna in questa specifica occasione è che non ho un obiettivo preciso. Non mi sono fatto “la scaletta” né tantomeno ho tirato giù il “timone” per questo intervento o, ancora, lo “storyboard”. Pertanto, scrivo per il piacere di lasciar giù qualche appunto, di stuzzicar qualche vespaio, di scrivermi per rileggere e capire poi se è vero.
Passata quella metà anagrafica che le statistiche indicano nei cinquant’anni, valore che solo una non indifferente dose di casuale fortuna potrà confermare, trenta e più dei quali dietro a carta e libri, mi trovo nell’insostenibile ansietà di capire quanto della mia doppia identità di lettore e scrittore sia rimasto e quanto invece non sia ormai fagocitato da quel pretenzioso cicaleggiare intorno al testo che oramai è quasi divenuto una biblica piaga tale da lasciare non la carestia, quanto l’inganno.
E sì che mi sento un privilegiato. Anche arrogante nell’attribuirmi la doppia identità. Quanto meno per l’immaginario collettivo per il quale tutti si può essere lettori e non tutti scrittori, come se alla lettura si richiedesse la sola esperienza dell’apprendimento scolare ed alla seconda chissà quali personali e congenite qualità e predisposizioni. Oggi ancora di più, nel momento in cui le figure attive dello scrivere rendono il termine scrittore una sorta di acronimo, identificativo di un coacervo di anime, capacità e conoscenze che hanno tutte, contribuito. Dietro ad un testo pubblicato vi è un lavoro di squadra, non necessariamente costituita da amici e fratelli, ma tale è stato. Specie e soprattutto quando il testo stesso è un romanzo, un saggio, un qualcosa insomma, per non allungarsi in un tedioso elenco (a meno che non sia poesia anche se qualche volta anch’essa è in odor di cooperativa), visto che quanto leggiamo è frutto del lavoro di un autore, di uno o più lettori, di un editor e di un editore.All’autore concediamo la fatica dell’idea e forse, ma non sempre, del brogliaccio, ai lettori il duro lavoro della valutazione primaria, quella che spesso risulterà determinante al lavoro successivo, all’editor oltre all’onere della lettura, lo sforzo di trasformare questa idea grezza (non solo gli autori peccano d’alterigia!) in un prodotto finito ed all’editore il compito di credere, promuovere lo stesso nel circuito della cultura o, comunque nel mercato.
Era così anche prima, forse. Ma quanto prima non è semplice identificarlo. E poi in fondo non ci interessa, anche se i grandi di un tempo probabilmente si stanno rivoltando nella tomba, asserendo che allora era tutta farina del loro sacco e che oggi, forse, molti autori dovrebbero avere l’umiltà di condividere la paternità del pubblicato in base a quella che è una realtà palese e conosciuta, ovvero che è frutto di un lavoro di gruppo anche se, per una ovvia e antica abitudine, si tende ad identificare l’autore e poi l’editore come se tutte le altre figure fossero “passaggi tecnici di lavorazione”. Liquidiamo la questione avendo chiaro comunque che dietro alla voce autore, almeno in questo excursus, intenderemo un gruppo, più o meno vasto, più o meno specializzato, di soggetti partecipanti. Ma questa è anche una élite. Non che come tale debba essere subito da connotare negativamente. Tutt’altro. Ciò nonostante lo è. E’ una élite perché, piaccia o meno, qualcuno sceglie. E nel compiere questa scelta opera una selezione in base a canoni non sempre e necessariamente identificabili con valori oggettivi. Anzi. E la scelta sui soggetti deputati a compiere questa scelta ricade su due figure, l’editor e l’editore, gli unici capaci di influenzarsi a vicenda. In misura e proporzioni ovviamente diverse in relazione sia ai rapporti interni alla casa editrice ed alle sue dimensioni, sia al mercato cui si intende rivolgersi. Unico tramite, ritenuto sovente un accessorio ancora nella vecchia Italia ed obbligatorio in quasi tutto il resto del mondo, l’agente letterario, che si sobbarca l’onere di fare da tramite tra l’editore, con tutta la sua organizzazione e lo scrittore. E qui potremmo disquisire per volumi e volumi circa l’effettivo ruolo e la competenza di ciascuna di queste figure, tutte poi confluenti nel grande calderone del mercato.
Il mercato. Un bell’affare il mercato. Talvolta sembra una cosa viva, autonoma, che da sola sovrasta tutti i partecipanti al gioco, in ciò volendo, finalmente, far comparire come protagonista anche il lettore che avevamo, apparentemente trascurato. Certo senza testo non viene il lettore, ma senza i gusti del lettore non può avvenire la scelta del testo. O quasi. Volete che apriamo un capitolo relativo, atto a farci comprendere quanto il lettore influenzi il mercato e quanto invece sia lui ad essere indirizzato dalle tendenze del mercato stesso, gestito da altre figure? Si tratta di individuare quale sia in realtà l’oggetto del contendere. In altre parole, al centro di questo universo vi è il testo con le sue valenze letterarie o il mercato?
Già le questioni sul tavolo, sparse senz’ordine, non sono poche. E se come lettore mi trovo sempre più spesso davanti a linguaggi standardizzati ed a dinamiche letterarie costruite a tavolino, come autore soffro in parte dello stesso dolore ritrovandomi sovente a dover discutere delle solite variazioni. Non correzioni, variazioni, con la scusa di uniformare la leggibilità, di renderla imbrigliata in gusti e tendenze che spesso, mi fanno recalcitrare perché vedo mi indirizzano in certi sentieri che alla fine ci rendono spesso, simili tanto che, all’interno di uno stesso genere, ciò che può salvarci è qualche intuito, qualche idea sopraffina perché quanto alla lingua ed ai suoi ritmi ed ingredienti si viene ad esemplificarsi nello stesso clichè. Così come certa critica e recensione, alla quale spesso basterebbe cambiare solo il titolo del volume di riferimento. E come per il libro, anche sulla rete certi modi sono divenuti omologanti ed identificativi delle categorie. Apparentemente venduti come elementi necessari ad una “miglior lettura”, di fatto identificano chi scrive per la scelta del carattere, dello sfondo, della lunghezza dei periodi, degli spazi tra un periodo e l’altro, dall’uso dei corsivi, dei maiuscoletti (o bold o grassetto che vogliamo), per la lunghezza infine dei servizi. E non è coercizione questa? Tutto ciò obbliga le mie capacità di lettore a certe pause, ad un ritmo respiratorio, ad una scansione della conoscenza e dell’apprendimento che non necessariamente mi facilitano. Per certo invece mi costringono ad esercitare la mia lettura in certo determinato modo. Quanto possa essere maggiore il beneficio rispetto alla costrizione non lo so, certo anche questo è, piaccia o meno, un codice identificativo. Come se all’utilizzo inevitabilmente se ne venisse attratti e indotti, forse per quell’abitudine talvolta più strumentale che di indagine culturale, in base alla quale si vuole identificare, classificare e nomenclare. Laddove identificazione però, non é comprensione, ma solo individuazione, che è solo soglia ad un possibile esercizio dell’intelligenza.
Un inciso a questo punto è d’obbligo. Non ho in questa sede mai fatto riferimento al “libro” quanto al “testo”. Lo preciso con una leggera vena di rammarico perché al libro c’ero e ci sono affezionato e non si può farmene una colpa. D’altronde i piccoli di oggi guarderanno, una volta adulti, se non l’avranno gettato, il loro primo tablet come un tesoro. Oggi, in pieno ed effervescente dibattito sui destini del testo si sta giocando una partita dove gli inganni, gli equivoci e le disinformazioni sono tali e tanti che del contenuto orami nessuno parla più, o quasi. Presi tutti dalla chimera capace di appagare l’ego ed il narcisismo più sfrenato, dell’autopubblicazione. Il magico e-book (accidenti all’inglese ed alle sue sempre più falsamente omologanti identificazioni), ovvero il testo in formato elettronico, o meglio il libro in formato elettronico, visto che per adesso, almeno la maggior parte, non è altro che una collezione di scansioni in OCR delle pagine di un libro alle quali sono state agganciate le funzionalità di un qualsiasi software di gestione testi.
Ebbene in questa transizione che pure vede molti seri operatori e professionisti interessati ad esaminare il passaggio sotto i più svariati aspetti, sia tecnici che culturali, si sta operando l’ennesima mistificazione, inducendo e promuovendo un nuovo falso mercato. Falso perché le aspettative sono frutto della consueta farsa o operazione di marketing che si voglia chiamare, atta più a mantenere, come spesso succede, lo status quo ante, che non a costituire effettivo palcoscenico per le migliaia di inediti scritti e scrittori. Elementi che sono sempre di più indotti a credere in questa onda libertaria che, complice l’universalità della rete e la relativa semplicità delle operazioni da compiere, fornirà loro la tanto agognata possibilità di pubblicare, quella possibilità che fino ad oggi era annegata tra tanti silenzi e tra i rarissimi rifiuti ricevuti, rifiuti che venivano spesso accolti quasi con religiosa esaltazione come a dire: almeno mi hanno letto! Oggi si allestiscono corsi, workshop, seminari, con l’intendimento di spiegare alla massa sconosciuta come apprendere l’arte della pubblicazione, quella stessa arte che fino a dieci – ma che dico, cinque! - anni fa era una cosa talmente complicata, inarrivabile ed irraggiungibile che sembrava posta su un Olimpo immaginario. Ed oggi invece …. basta aprire i siti di case editrici anche molto note, che subito si vede come si siano prodigate ad accettare infine quanti fino ad ieri erano visti come paria intoccabili (perché è vero, infinite volte la scelta è stata operata a scatola chiusa, anche in buona fede, ma a scatola chiusa), offrendo loro di trovare il bottone da cliccare, quello brillante, scintillante, agognato con su scritto: “vuoi pubblicare con noi? … segui le istruzioni ed in pochi passi avrai il tuo volume in formato elettronico disponibile”.
Ed in pochi semplici passaggi il miracolo si avvera, sotto la tutela e la garanzia di marchi importanti, di blasonatissimi editori. Con tanto di promessa e di una chiara possibilità, quasi una sicurezza, per quel miracolo linguistico che solo nei contratti si realizza tanto che ciò non è sembra e ciò che non sembra sicuramente sarà, per cui dietro all’opportunità offerta peraltro a “ridicoli costi”, vi sarà tutto l’interesse dell’editore a valutare se inserire il vostro figlio intellettuale nell’agognato catalogo, ottenendo dunque - bontà divina! - quel risultato in termini di coinvolgimento di quelle figure professionali di cui sopra parlavamo, ovvero di lettori, editor ed editori, che fino a solo pochi giorni fa, potevate solamente sognare o leggere nei loro blog o post ospitati da grandi testate, che avrete già centinaia e centinaia di volte interpellato nei commenti venendo, inevitabilmente e giustamente tra l’altro, rinviati ai canali che ora l’una, ora l’altra casa editrice mettevano a disposizione per l’invio dei “manoscritti”.
Ora, una riflessione si impone. Il termine autopubblicazione non vuole significare unicamente che potrete godere pur nell’ignoranza elettronica di tutte quelle meraviglie che faranno del vostro testo in word un libro, con tanto di scelta anche del colore della carta e stupidaggini simili. Autopubblicazione vuole anche dire che voi avrete come unica opportunità quella di sapere che nel server dell’editore che avete scelto, risiede il file con il vostro libro. File che lì resterà e nessuno promuoverà a meno che non abbiate pagato anche questo servizio. Servizio che poi, sarei molto curioso di sapere come potrete verificare. Quindi, in altre parole, una volta autopubblicato, siete voi, SOLI, con il vostro file relegato in un server. E niente più. Avrete avuto pane per sfamare un poco il vostro sogno e gli editori stavolta, un poco di soldi anticipati. Stop.
E certo. Gli editori stavolta, anziché investire e rischiare su un testo, cosa che in parte almeno giustificava certe ritrosie e difficoltà del cartaceo, oggi invece, con questo servizio offerto, incassano subito, anche se poi, di quel libro elettronico se ne venderanno le canoniche dieci copie, suddivise tra fidanzati, parenti ed amici. Comincierà una nuova corsa dunque, così come è stato con i blog in definitiva, la corsa a socializzare ed a promuovere. Facebook raddoppierà in pochi anni le proprie pagine, e come lui gli altri social network saranno intasati completamente di autori che compulsivamente tenteranno la loro fortuna, mendicanti di un “like” o di un “retweed”. Le case editrici nel frattempo continueranno il loro cammino di sempre, ammiccando al nuovo con versioni elettroniche di taluni volumi sui quali decideranno di investire. Ovviamente, e qui cade vergognosamente un altro mito, la versione elettronica non costa né costerà come ci si attenderebbe da un’intuibile disamina dei costi la metà dell’edizione cartacea ma, a malapena, il 10% in meno in quanto la stessa, almeno per adesso, serve a reintegrare parzialmente i costi dell’invenduto cartaceo. Un domani forse, quando non vi sarà versione cartacea, il prezzo del formato elettronico potrà scendere sensibilmente e fare la differenza, oltre a portare, efficacemente, tra le schiere dei lettori quanti oggi non possono permettersi una media di 15 euro per ogni libro acquistato, prezzo che, d’altronde, non può ulteriormente scendere in quanto deve tener conto del costo totale delle copie stampate e, più che altro di quante resteranno invendute. D’altronde le case editrici non sono né possono essere delle case di beneficenza e questo, almeno in linea di principio va compreso. Hanno un ruolo nell’universo culturale ed è un ruolo ricco di sfide ma anche di rischi, di costi e non è facile nemmeno per loro. E poi non dimentichiamoci che esiste un indotto in questo come in tutti i mercati. Giornalisti, grafici, tipografi, opinionisti, critici infine, tutti che campano di quanto viene stampato e/o pubblicato. Vivono e non solo ma, come nel caso di giornalisti e critici, sono parte attiva (e parassita quando possibile) nell’indirizzare il lettore scegliendo, più o meno in accordo con l’editore, di incensare e promuovere un libro piuttosto che non un altro. Quanta indipendenza vi è nelle recensioni che vengono presentate? Difficile dirlo. Nel contempo accetto scommesse su quanti degli ebook autopubblicati si vedranno recensiti sulle grandi testate o nei saggi dei critici, quegli stessi che in altre branche artistiche sono riusciti a gestire completamente il valore delle opere d’arte, stabilendo fortune e sfortune di artisti, musei e galleristi.
Non vi è morale da enunciare ma solo il sentore dell’ennesimo grande inganno. Preferivo la casa editrice irraggiungibile che non vederla scivolare ad offrire servizi che oggi in definitiva un qualsiasi grafico o persona con un minimo di conoscenze informatiche può tranquillamente farsi in casa da sola al proprio computer, utilizzando poi per pubblicare uno dei tanti programmi di affiliazione che ci sono con le gradi distribuzioni. O quantomeno, vorrei, come al solito, più trasparenza. Trasparenza da parte degli autori che per una volta ammettano che senza il lettore e, soprattutto, una solida redazione, non pubblicherebbero nemmeno una riga. Vorrei trasparenza da parte degli editor o, quanto meno, l’onestà di riconoscere quanto siano o meno dovuti e non solo voluti i loro interventi. Vorrei più dignità da parte delle case editrici e non proclami cultural-sociali cui più nessuno oggi crede visto che poi, la qualità media del pubblicato non è poi specchio reale di tanto fervore intellettuale, anzi. Insomma vorrei che come al solito non si contasse sull’intelligenza altrui per rimanere vaghi quel tanto che basta a trarne, spesso, indebito profitto. Vorrei più lettori in assoluto e il libro elettronico può essere una grande occasione, anche perché sposa l’amore di questo millennio, quello per l’elettronica. Vorrei meno illusi, specie tra i giovani, che con questo enorme inganno dell’autopubblicazione, il self-publishing per gli ignoranti e gli omologati, siano indotti a credere non solo di essere scrittori (quando invece, nella dignità di un rifiuto si può forse intuire come sia meglio alimentare sogni differenti, pur mantenendo inalterata la passione), ma anche di avere supporti di fatto inesistenti. Utilizzino questo strumento, giusto per togliersi una soddisfazione, con leggerezza in fondo e perché no, anche per mettersi, senza rischiare troppo, un tantinello in gioco. Almeno per adesso.