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Il thâuma negli scritti di Dino Licci

Creato il 29 novembre 2011 da Cultura Salentina
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Dino Licci, "Il Padre" (1991)

Gli scritti di Dino Licci, al primo impatto, sembrano tra loro slegati – anche quando sono raccolti in un unico volume – e ciò sia per la molteplicità degli argomenti trattati e sia per il suo modo di affrontarli perché spazia dall’impalpabilità della speculazione filosofica alla dimensione del razionalismo puro dove, quasi con un senso di arrendevolezza scontata, è sopraffatto dalla logica e dallo scientismo. Per trovare, allora, una chiave di lettura che possa fungere da filo conduttore in tutto ciò che Dino produce, bisogna liberarsi da ogni preconcetto, dalle convinzioni e da tutti quei paletti che nella nostra cultura sono simili a pilastri inamovibili sui quali è stato plasmato il nostro sapere e il nostro credo. In tal modo, gli scritti di Dino trasudano una straordinaria tensione intellettuale con la quale mira a soddisfare il suo struggente desiderio di comprendere il senso della vita manifestato in quel creato dove il sapere scientifico non è ancora riuscito a spiegare il tutto. Ciò, tuttavia, non significa per Dino abbandonarsi all’idea dell’esistenza di un’entità superiore la cui intelligenza va ben oltre le nostre percezioni e le nostre capacità intellettive quanto, invece, cercare di comprendere se questo possa esistere realmente oppure possa definitivamente dirsi “fantasia”. Ecco, quindi, che all’orizzonte appare quel thâuma dal quale discende la filosofia ovvero quella speculazione che da secoli si domanda: da dove veniamo? E dopo la morte, dove andiamo?

Dino, per questo, vede nel credo religioso una sorta di “cultura preconfezionata” creata per illudere e, al contempo, terrorizzare e perciò la fede diventa per lui un meccanismo psicologico di controllo della ragione umana la quale, se libera da ogni preconcetto, diverrebbe pericolosissimamente destabilizzante e ciò, ancor più, nelle società  dove sul controllo umano si sono fondate le gerarchie di potere e, di conseguenza, le diseguaglianze sociali ad ogni livello, in ogni epoca, manifeste o argutamente mimetizzate nella cosiddetta “naturalezza delle cose”.

Bisogna partire dalla “vita” per comprendere ciò che fu e ciò che saremo, pare scrivere il Licci in ogni pagina dove si sofferma sull’osservazione della natura oppure dove accenna alla biologia e alla chimica.  Allontanatosi allora, così come scritto, dal cercare la spiegazione della “vita” nella dottrina religiosa di tradizione abramitica poiché falsata, è la scienza, invece, a dargli quelle certezze incontestabili dalle quali poter procedere a passi lenti ma sicuri. E’ lo studio di Darwin, così come si apprende nel “Violinista Folle”, a caratterizzare definitivamente la sua tensione intellettuale ma egli non sprofonda mai nell’evoluzionismo puro e tantomeno rigetta del tutto il creazionismo ma si pone in equilibrio riuscendo a mediare “il conflitto” attraverso la speculazione filosofica nella quale spuntano i caratteri della metafisica aristotelica e del Timeo di Platone dove l’immutabilità delle Idee costituisce il punto di partenza della materia. Su questi principi, nuovamente, Dino si interroga e pertanto lo studio della fisica, quale strumento per spiegare il fenomeno o meglio per ricercare la causa di esso, si accosta alla sua osservazione della natura che diventa ancor più scientifica grazie alla sua formazione professionale che lo ha edotto nelle scienze naturali. Spaziando dalla meccanica quantistica, alla teoria del Bing Bang e buchi neri, alla selezione della specie, all’evoluzionismo, alla geologia, passando per la religione e la politica, Dino convoglia tutto questo “sapere” per dirigerlo sempre verso quel suo logorante obiettivo: capire il senso della vita per risolvere l’atavico thâuma. Ma ciò non gli basta e non lo appaga perché all’uomo è dato immaginare l’infinito e l’intangibile ma la ragione gli impone di riflettere su quanto può essere dimostrabile e così Dino si rigetta nello studio aggiungendo conoscenze al suo già vasto bagaglio culturale sino, ad un certo punto, dire che la fame di cultura è diventata una dannazione.

L’arte in Licci svolge un ruolo fondamentale perché attraverso la pittura prendono forma i suoi pensieri e pertanto la materia del colore permette di dare materialità al suo mondo interiore che è dannato, esausto, arreso, combattivo, certo, insicuro ecc. ma mai appagato. Accanto alla pittura la musica riesce a placare i suoi tumulti interiori, psicologici e biologici, ed è attraverso di essa che trova l’armonia con tutto ciò che gli gira intorno. E’ la musica che lo rende parte cosciente, ma non indispensabile, di quella magnifica opera che è la natura nella quale solo ora con l’armonia delle note il pensiero del Licci diventa inerte di fronte ai suoi tanti dilemmi sulla vita.

Quanto scritto non può considerarsi una riflessione completa su Dino Licci perché egli è complesso e difficilmente percepibile in tutte le sue tensioni. Ognuno è più sensibile o meno ad uno dei suoi aspetti e Dino riesce sempre a metterti al centro del suo racconto lasciandoti alla fine l’interrogativo più grande: che cosa sei e perché sei così?


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