Potrebbero diecimila e più le vittime del tifone Haiyan, che ha devastato le Filippine spazzando via tetti, abitazioni e interi quartieri. Il bilancio ufficiale è ancora fermo a centinaia di morti, ma il sospetto purtroppo fondato è che la tragedia sia già ecatombe e il disastro una pagina di vera apocalisse. Dalla Farnesina trapela la notizia secondo cui fra i dispersi non vi sarebbero nostri connazionali ma questo, francamente, non toglie proprio alla gravità di quanto accaduto e di quanto, Dio non voglia, potrebbe ancora succedere in Vietnam.
E qui? Qui, nell’Europa della crisi economica, Haiyan suona ancora come parola nuova, esotica, praticamente sconosciuta. Del resto, fra noi e la provincia di Leyte, il centro delle Filippine raso al suolo dall’uragano, la lontananza è in effetti notevole. Altro Paese, altro posto, altro clima; per un attimo potremmo anche pensare che si tratti di un altro mondo se non fosse popolato di persone proprio come noi ma completamente private, da una manciata di ore a questa parte, della loro serenità, dei loro quotidiani riferimenti e, in molti casi, persino dei loro cari.
Si calcola che gli sfollati siano milioni, e mentre la cornice della distruzione sembra destinata a dilatarsi ancora, per noi – pur coi piccoli problemi e le grandi paure con cui conviviamo – si materializza l’occasione di percepire quanto precari, in fondo, siano i lussi ai quali non diamo più peso, le abitudini che crediamo certe e che potrebbero interrompersi da un momento all’altro. Come tutto, in realtà. Eccetto quella fraternità e solidarietà che ora possiamo, ciascuno a suo modo, far arrivare nelle Filppine. Come una mano tesa e inattesa, un lungo abbraccio che è il caso di offrire come dovere e come speranza, capitasse mai qui una cosa simile, possa ritornare.