L’asfalto rifletteva la luce gialla dei lampioni mentre le ultime gocce d’acqua aggrappate ai finestrini delle auto, stavano pian piano mollando la presa. Ero lì da circa una decina di minuti, a godermi il fresco di quella sera d’estate, mentre la punta accesa della mia sigaretta era quasi arrivata al filtro.
“I Severoni so’ partiti pe’ le vacanze e nun torneranno prima de la prossima settimana”, disse Er vichingo poco prima di intascarsi un paio di banconote verde oliva. Er vichingo. La cosa che mi ha sempre affascinato del mio rapporto con lui è che ci conosciamo da vent’anni, da vent’anni mi passa informazioni e da vent’anni continuiamo a chiamarci per soprannome. Non ho la più pallida idea di come si chiami in realtà.
Gettai la sigaretta, diedi una rapida occhiata in tutte le direzioni e mi avvicinai al cancello del palazzo, un edificio di cinque piani circondato da un’alta palizzata di sbarre appuntite in ferro. Scavalcai il cancello con estrema cautela, per evitare che le mie glorie vi rimanessero appese, e scesi rapidamente al di là dell’inferriata. Corsi ai piedi del palazzo, eludendo il fascio di luci che illuminavano il cortile del condominio a forma di ferro di cavallo, e arrivai all’entrata della scala D.
Il vecchio portone del palazzo era solamente accostato per via della serratura guasta e non fu difficile raggiungere l’ascensore che mi avrebbe accompagnato fino al quinto piano. Una volta individuata la porta dei Severoni, feci l’ultima rampa di scale fino alla porta che dava sui vecchi lavatoi. Forzai la porta e, una volta aperta, rimasi incantato dalle luci che illuminavano la città e scintillavano nell’aria frizzante e nebulizzata dal recente acquazzone. La cupola di San Pietro sembrava la corona di una regina spagnola ed è impossibile rimanerne indifferenti.
Mi sporsi con il busto oltre il parapetto e individuai immediatamente le persiane accostate dell’interno 24. Legai la fune da scalatore che tenevo nei pantaloni, al comignolo principale del palazzo e ne lasciai andare una decina di metri al di là del parapetto. Scavalcai la ringhiera e lentamente mi calai fino a poggiare i piedi sul cornicione che ornava la base della finestra. Sebbene potessi usare solo una mano, da quella posizione non fu difficile rimuovere il fermo dalla tapparella con il mio cacciavite, per poi aprirla delicatamente. Passai alla finestra e anch’essa cedette senza troppe pretese. In pochi secondi fui dentro. Accostai di nuovo le tapparelle, fissai la fune a uno dei cardini – non si sa mai una fuga rovinosa – e mi addentrai nel salotto, illuminato solamente dalla luce rigata dei lampioni stradali.
La casa era chiusa da qualche giorno eppure l’aria era leggera e profumata. Latte di rosa, per essere precisi. Il signor Severoni era un commerciante di tappeti, noto per la sua avarizia e fu proprio grazie a Er vichingo, suo meccanico di fiducia, che venni a sapere dell’abitudine di questo tizio, il Severoni, di conservare i propri risparmi in una cassaforte dentro casa.
I quadri ricoprivano per intero le pareti della sala, lasciando intravedere, tra i bordi delle cornici, i disegni geometrici di una vecchia carta da parati in tipico stile anni ’60. Se il mio fiuto non m’ingannava - e non l’ha mai fatto - la cassaforte doveva trovarsi dietro uno di questi quadri. Ma quale? Accesi la torcia e cominciai a girare lentamente su me stesso finché non rimasi colpito da una cornice posta al di sopra di una vecchia credenza di legno scuro.
A differenza di tutte le altre, la cornice era di dimensioni ridotte, senza ornamenti e il dipinto al suo interno era di dubbio gusto sia per la scelta dei colori sia per il fatto che rappresentava un’enorme capra, o qualcosa del genere, che rincorreva per una collina, una donna nuda e cicciottella. Il messaggio era chiaro: “prendete tutto ma non me, sono troppo brutto”. Mi avvicinai al dipinto con la capra eccitata e ne sollevai lentamente la base mentre con la torcia in bocca ne illuminavo la parte posteriore. Ecco la cassaforte! Il buon Severoni era più prevedibile delle rotaie di un tram.
Appoggiai la torcia alla credenza per impugnare meglio la cornice, e il fascio di luce illuminò la fotografia scolorita di un uomo e una donna, coetanei di circa trent’anni, abbracciati e sorridenti davanti alla torre di Pisa. Mi avvicinai con la testa al ritratto. Lui era sicuramente il Severoni ma lei.. No, non poteva essere lei!
Claudio ti va di cambiare il giorno sul calendario?
Claudio si alzò dalla sedia sbuffando e, dopo essersi sistemato il grembiule blu con quel ridicolo fiocco bianco al collo, si diresse verso la parete verde scuro dell’aula, dove era appeso il calendario giornaliero. Si mise in punta di piedi e strappò il foglio del giorno precedente, scoprendo la nuova data. Poi la maestra lo invitò alla cattedra, gli diede un bacio e lui, dopo neanche tre passi, si pulì la guancia con il foglio del calendario, che poi gettò nel cestino accanto al mio banco. Senza farmi vedere, ripresi la pagina dal cestino e le restituii la sua forma originaria. Poi la avvicinai al naso e rimasi inebriato da quel profumo dolce e squisito che conoscevo bene e tanto amavo.
Lei era la maestra Maria Teresa Veneziani e il foglio che tenevo in mano indicava la data del 12 aprile 1967. San Damiano di Pavia.
Presi la fotografia e mi sedetti sulla poltrona, senza distogliere per un attimo lo sguardo da quella donna a me così familiare, dai capelli lunghi e castani, con gli occhi da sognatrice e il sorriso rassicurante. I ricordi cominciarono a bussare alla porta della mia mente, tutti insieme. Come quella volta che per farmi coccolare da lei mi finsi malato e, mentre ero avvinghiato al suo petto morbido, arrivò Suor Gertrude e i suoi centottantachili al seguito che, con quelle mani ruvide e callose da pescatore di squali, mi prese per la collottola e mi portò in infermeria. Un ricordo che pensavo perso tra tanti ricordi. Quanti anni sono passati, vero maestra? All’inizio sorrisi trasognante ma poi, inaspettatamente, una coperta di nostalgia e infinita tristezza mi coprì dai piedi al collo. Ero confuso e senza più motivazione. Una sensazione stranissima che non mi permetteva di fare un solo pensiero razionale.
Sentivo gli occhi gonfi ma, poco prima che tracimassero, un ultimo spiraglio di orgoglio risollevò le mie sorti assorbendo le lacrime. Non posso farle questo. Non a lei.
Dopo una decina di minuti mi alzai dalla poltrona e riposi la fotografia nel punto dove l’avevo presa. Poi mi voltai verso la cornice con la cicciona fuggitiva e mi assicurai che fosse esattamente al suo posto. Decisi di non uscire dalla porta principale per non farle prendere un colpo al suo ritorno, trovandosi la porta aperta dall’interno. Chissà se gli anni l’hanno cambiata, pensavo. Ritornai sui miei passi e con un panno asciugai le impronte lasciate dalle scarpe umide. Diedi un’ultima occhiata a quella foto e ripresi la fune che avevo lasciato legata a uno dei cardini della finestra. Salii sul davanzale e, prima di intraprendere la breve scalata fino ai lavatoi, mi assicurai dall’esterno di accostare la finestra e le due tapparelle, rimettendo il fermo al suo posto. Salii facendo presa sui rilievi ornamentali del palazzo. Arrivato alla sommità del palazzo, mollai la presa della fune e, nel gesto di attaccarmi alla grondaia, il piede sinistro perse per un attimo aderenza sulla parete ancora umida.
Era l’ora del dettato e la maestra Teresa stava girando silenziosamente tra i banchi, leggendo con lentezza la favola della lepre e la tartaruga. Mi passò accanto e la sua essenza al latte di rosa mi accarezzò i capelli. Non riuscendo a ricordare come scrivere una parola, cercai di attirare la sua attenzione e, nella foga, mi spinsi all’indietro con la sedia fino a superare involontariamente il punto d’equilibrio. Con le mani disegnai dei cerchi nell’aria nel tentativo di riprendere la posizione ma ormai era troppo tardi. E mentre mi preparavo all’inevitabile impatto, qualcosa mi rallentò la caduta fino a farmi tornare seduto.
La maestra Teresa. Quanto tempo. Non ricordo le facce dei miei compagni di classe, neanche una. Non ricordo con chi di loro ho giocato, con chi ho litigato né a chi ho chiesto scusa. Non so che fine abbiano fatto, se sono morti, se hanno fatto carriera o se magari ho svaligiato le loro case. Non ricordo nulla di ciò che c’era di buono nel mio passato. Ma non sono riuscito a dimenticare lei. Lei che in tutti questi anni, anche senza saperlo, è sempre stata presente dentro di me.
Come una lunga sbarra di ferro appuntita che ti trafigge il cuore.